Se i carcerati psichiatrici venissero ospitati in apposite strutture a loro dedicate, ci sarebbe un duplice effetto positivo
Il grande dispendio di energie rappresentato dalla spesa per la gestione delle carceri non sembra generare risultati particolarmente incoraggianti; gli indicatori in merito sono implacabili da qualunque parte si prendano: elevato grado di aggressività di detenuti e custodi, percentuali infime di miglioramenti del livello di scolarizzazione, improduttività del sistema a fronte di bisogni pubblici enormi, recidive altissime alla dimissione.
La qualità della vita dentro le carceri è anche peggio; in alcuni istituti è drammatica: una doccia alla settimanale, celle stipate come pollai, vestiti e saponi portati in massima parte dai volontari, malati psichiatrici non curati.
Le cause sono molteplici e perduranti nel tempo; accenno solo a una che mi sembra decisiva. La popolazione civile ha bisogno di una sacrosanta sicurezza quando vive, si sposta, è in casa, usa i mezzi pubblici o va in vacanza, ma si è consolidata l’idea che la detenzione, meglio se aspra e lontana, reprima il crimine mentre repressione e redenzione sono cose diverse; esattamente come in sanità lo sono le manovre di rianimazione dalle operazioni programmate.
Il problema è complesso e non ha soluzioni semplici o raggiungibili con singoli provvedimenti: ci vuole conoscenza, cultura, passione per sé e per i propri simili.
Occupandomi di luoghi di cura per malati psichiatrici indico un contributo, parziale ma utile, che da lì è possibile dare al problema.
Oggi i carcerati in Italia sono oltre sessantamila, seimila dei quali con diagnosi psichiatrica severa. La loro presenza nelle carceri incide esponenzialmente sulla qualità della vita nelle stesse. In Italia esistono circa ventisettemila posti letto in strutture psichiatriche di riabilitazione, pubbliche e private, idonee a ricevere, in giusta proporzione, anche pazienti provenienti da luoghi di detenzione. Se tali strutture ospitassero per il 20% della propria popolazione pazienti provenienti dalle carceri, queste si svuoterebbero di malati psichiatrici.
Per tali strutture, tuttavia, la provenienza del paziente dalle carceri è normalmente causa di non idoneità al ricovero per l’onerosità gestionale e burocratica del ricovero stesso; la non idoneità è data a volte anche a fronte di una non saturazione della struttura di riabilitazione.
Occorre far diventare il paziente proveniente dalle carceri un punto di interesse per queste strutture, permettendo loro di attrezzare requisiti organizzativi idonei (educatori, infermieri, psichiatri). L’incremento delle rette di ricovero in strutture di riabilitazione pari a un terzo di quel che costa un detenuto ordinario al sistema carcerario risolverebbe il problema. Cinquemila detenuti con malattia psichiatrica severa costerebbero cento milioni all’anno: una bazzecola rispetto ai 3,3 miliardi di costo annuo del sistema penitenziario.
Chi ha ospitato pazienti con misure in atto ha potuto costatare che non ne scappa neanche uno e che i tassi di aggressività e di riacutizzazione precipitano, così come cala il consumo di farmaci.
Qualche istituto, come quelli in cui mi capita di operare, si è spinto a percentuali di ospiti provenienti dal sistema penitenziario molto vicine a quelle qui ipotizzate cercando risorse nelle tasche della provvidenza: è uno spettacolo di umanità e un guadagno per tutti.
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