Di fronte a quello che sta avvenendo in questi mesi in Medio Oriente vien da chiedersi se abbia senso sperare ancora
Di fronte a tutto questo due ministri di Dio, un Cardinale Cattolico e un Patriarca Ortodosso con centinaia di tonnellate di aiuti umanitari sono entrati in quel luogo amato da loro, dai suoi abitanti, amato da Dio. Sono entrati a Gaza il giorno dopo l’attacco israeliano alla Parrocchia cattolica della Sacra famiglia. Per ore hanno atteso che arrivassero i permessi dalle autorità israeliane. E intanto il Papa chiamava al telefono il Cardinale Cattolico, il Patriarca Pizzaballa, per esprimere il suo dolore per i morti e per invocare la fine della strage.
Padri che non rinunciano a essere vicini ai loro figli. Che rischiano che altri attacchi possano colpire anche loro mentre attraversano le rovine di Gaza, mentre si chinano sui feriti, mentre abbracciano e si lasciano abbracciare. Loro sono lì, insieme a quelli che restano di quella comunità martoriata. “Noi rimaniamo. Qualsiasi cosa accada”. Così il Cardinale Pizzaballa, che aggiunge: “La fame. Ce n’è tanta. Mancano gli ospedali. C’è anche poca acqua. Questo stillicidio continuo non è umanamente e moralmente più sostenibile”.
E alla domanda della giornalista del Corriere che, proprio il giorno dopo gli attacchi alla Chiesa di Gaza, gli chiedeva “È ottimista?”, Rispondeva “Dovrei esserlo. Sono un uomo di fede. Ho la speranza”. L’ottimismo è un’ opzione. La speranza una certezza. Anche Dante nel XXV del Paradiso aveva definito la speranza “uno attendere certo”.
È questa speranza, questa attesa certa, che impedisce a quella povera gente di abbandonare quel che resta delle loro famiglie e delle loro case. È questa speranza che accompagna lo sforzo di quei padri nel sostenere le vedove, gli orfani, i feriti, gli affamati. È la speranza generata da uno sguardo nuovo sulle cose.
Torna in mente quello che Pizzaballa, aveva detto alla fine del 2014, allora non ancora Patriarca dei Latini, ma Custode di Terrasanta. Aveva partecipato a Roma alla presentazione della trentacinquesima edizione del Meeting per l’Amicizia fra i Popoli e già allora a proposito della Siria sottolineava che la situazione era preoccupante e che in Terra Santa, “nell’eterno conflitto israelo-palestinese la situazione non è migliore”. “Ma dentro questo dramma – aggiungeva – c’è ancora la possibilità di sperare. C’è un potere più forte, più grande: il potere della speranza. Il male esiste, ma è impotente di fronte al cuore infranto ed integro. Di fronte ad uno sguardo redento, il male non può nulla”.
>Quello sguardo redento allora come oggi testimoniato dai tanti che vivono nelle martoriate zone di guerra. “Un cuore infranto – proseguiva Pizzaballa – è continuamente in ricerca, assetato, mai sazio. In ricerca di qualcosa che sani quella ferita, colmi quella frattura”. Il cuore di chi non ha rinunciato a sperare, perché l’attesa, l’attender di cui parlava anche Dante, ce l’ha iscritta nel cuore. Un’attesa che può appannarsi, può logorarsi di fronte al male, al dolore, alla violenza. Ma che al fondo è inestirpabile. Che può riaccendersi in un incontro imprevisto , o di fronte alla bellezza del cielo, o nel calore di un abbraccio inaspettato.
Ecco perché ha senso sperare ancora. Perché non sarebbe umano rinunciare a quell’attesa che ci costituisce e non sarebbe ragionevole smettere di aspettarsi un cambiamento possibile anche nella più insensata e atroce circostanza che possa esistere.
E testimonianza di speranza è stata quella Messa che il Cardinale Pizzaballa ha voluto celebrare domenica mattina a Gaza, con quella vibrata affermazione con la quale ha abbracciato non solo la comunità cristiana ma tutta la popolazione di Gaza “Non siete dimenticati”. E le parole del Papa all’Angelus da Castel Gandolfo sono state il segno di quanto questa speranza non sia un astratto e consolatorio sentimento, ma piuttosto l’affermazione concreta di vite da salvare, di azioni da intraprendere, di giudizi da esprimere.
Papa Leone ha parlato di attacchi israeliani, di barbarie che deve fermarsi. Ha scandito interamente i nomi delle tre vittime palestinesi di giovedì scorso, perché le vite umane non sono un entità generica. E chiedendo ancora una volta una risoluzione pacifica del conflitto ha indicato analiticamente le norme del diritto internazionale che continuano a essere violate. Ha senso sperare. Perché siamo fatti per questo. La speranza è l’affermazione di una certezza, ma al tempo stesso è la messa in conto di una sfida.
“So che bisogna alzare le vele – scriveva Lee Masters – e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre a follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio. È una barca che anela al mare eppure lo teme”.
Dobbiamo augurarci che ci siano uomini con questo gusto di alzare le vele dei propri vascelli per cercare soluzioni ai conflitti, per costruire relazioni, per tessere rapporti capaci di valorizzare le diversità. Uomini capaci di usare il potere per affrontare le emergenze e le sfide che la realtà ci pone davanti. Consapevoli che le attese degli uomini e la loro capacità di sperare sono la più grande risorsa di cui disponiamo.
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