Nella sua ultima udienza Papa Leone XIV è ricorso al tradimento di Giuda per una lezione sulla responsabilità e sul senso della nostra vocazione
“Cari amici, questa domanda – ‘Sono forse io?’ – è forse tra le più sincere che possiamo rivolgere a noi stessi. Non è la domanda dell’innocente, ma del discepolo che si scopre fragile. Non è il grido del colpevole, ma il sussurro di chi, pur volendo amare, sa di poter ferire. È in questa consapevolezza che inizia il cammino della salvezza” (Leone XIV, dall’Udienza generale del 13 agosto 2025).
Il Papa, mercoledì scorso, ha lanciato una provocazione molto interessante per chi non ha ancora perso il gusto di sé. Partendo dal racconto del tradimento di Giuda, così come è riportato dall’evangelista Marco, il Santo Padre sgombera il campo da ogni possibile tentativo di scaricare sugli altri le responsabilità del male che vediamo attorno a noi e in noi, distinguendo così l’indignazione dalla tristezza: “La reazione dei discepoli non è rabbia, ma tristezza. Non si indignano, si rattristano. È un dolore che nasce dalla possibilità reale di essere coinvolti”.
Il moralismo infatti, sempre pronto a entrare in campo appena ne vede un piccolo spiraglio, ci conduce nella trincea dell’accusa, armandoci di tutto quello di cui abbiamo bisogno per uscire illesi dalla battaglia. Non ammette ferite, non tollera cedimenti e si traveste da responsabilità.
Proprio in riferimento a quest’ultima parola scopriamo il contributo più significativo di quanto ha detto il Papa mercoledì scorso, tratteggiandone le caratteristiche più autentiche.
Quante volte usiamo la parola “responsabilità” avendo in mente il potere che richiederebbe di esercitare o il sottile riferimento alla coerenza che domanda. In fondo mettendo sempre noi come centro e origine di tutto, improvvisati superuomini che credono di essere sempre sul pezzo.
La vicenda di Giuda permette a Cristo di mostrare cosa sia veramente la responsabilità: “Noi siamo abituati a giudicare. Dio, invece, accetta di soffrire. Quando vede il male, non si vendica, ma si addolora”. Il Signore educa i suoi a “rispondere” facendo emergere le domande vere dalla realtà.
Così, anche la vicenda drammatica del tradimento di uno dei suoi diventa l’occasione perché tutti si sentano coinvolti: “Sono forse io?”. Davanti a Cristo, negli istanti che rappresentano l’apice della sua vita terrena, torna protagonista l’impeto della prima chiamata e il “no” di Giuda diventa l’occasione della verifica del “sì” per tutti gli altri.
Perché loro non se ne sono andati? Perché sono ancora lì davanti a Lui nonostante nel cuore di molti si sia annidata la delusione e l’incomprensione per il metodo di Dio? Certamente avevano già fatto esperienza personale del fatto che “Gesù non si scandalizza davanti alla nostra fragilità. Sa bene che nessuna amicizia è immune dal rischio del tradimento. Ma Gesù continua a fidarsi”.
Adesso, però, il Figlio di Dio accetta la responsabilità, appunto, di averli scelti Lui uno per uno. Non si pente di aver pronunciato i loro nomi, di averli coinvolti nella sua amicizia, di averli inviati consegnandosi alla loro testimonianza e non per amore alla coerenza, ma al destino della loro vita: “Questa è la speranza: sapere che, anche se noi possiamo fallire, Dio non viene mai meno. Anche se possiamo tradire, Lui non smette di amarci”.
In un istante si ritrovano sospesi alla vertigine della vocazione: avevano detto di “sì” a Lui o alla responsabilità che chiedeva la Sua proposta? “Il modo in cui Gesù parla di ciò che sta per accadere è sorprendente. Non alza la voce, non punta il dito, non pronuncia il nome di Giuda. Parla in modo tale che ciascuno possa interrogarsi”.
In fondo è semplice, ma solo per audaci, raccogliere la sfida che il Signore lancia alla nostra vita: godersi la Sua opera. E così trova posto anche la nostra disarmata responsabilità.
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