Non serve conoscere tutti i dettagli per sapere cosa sta accadendo a Gaza e quale sia il nocciolo della questione
Non serve essere stati a Gaza per capire cosa sta succedendo lì. Non bisogna conoscere tutti i dettagli di questa guerra, del conflitto in Medio Oriente, per comprendere la chiave fondamentale di ciò che sta accadendo. Non è necessario essere membro di una delegazione delle Nazioni Unite e condannare gli attacchi di Hamas e il massacro disumano e sproporzionato di Netanyahu davanti ad ambasciatori di tutto il mondo per essere protagonisti in questa tragica storia.
Sappiamo tutti, con tutte le differenze del caso, cosa significa “vivere a Gaza”. Anche se non ci siamo stati, sappiamo da dove nasce il desiderio di distruggere gli altri e sappiamo quale tipo di soddisfazione, di conformità con se stessi, occorre per accoglierli e costruire la pace. Abbiamo esperienza di entrambe le cose. Le acque del fiume della storia scorrono lungo i canali tracciati dai cuori delle persone. L’effetto farfalla si applica anche all’ecologia umana.
Negli ultimi anni, per spiegare i grandi cambiamenti nel mondo, qualsiasi specialista che si rispetti fa riferimento alla condizione esistenziale. Malessere, vuoto, rabbia, vendetta, ignoranza sono le parole usate non solo dagli psicologi, ma da chi vuole comprendere la crisi della democrazia o le origini di una guerra. L’infelicità ha cessato di essere un problema di chi è incline all’introspezione, degli intimisti, ed è diventata la categoria politica suprema. Non si può costruire la pace senza un soggetto e senza che quel soggetto sia in qualche modo in pace con se stesso.
Almeno in questo, i tempi sono favorevoli: l’esperienza confuta ostinatamente la vecchia idea che vita e politica siano due cose distinte o autonome.
Non è necessario conoscere tutti i dettagli della guerra di Gaza, ma vale la pena ricordare che Israele è sotto shock dagli attacchi dell’ottobre 2023. Netanyahu ha approfittato di questa situazione per proporre una guerra lunga che non può vincere (non può sconfiggere completamente Hamas).
Vale la pena ricordare che la Corte penale internazionale ha incriminato il Primo ministro israeliano per crimini di guerra e crimini contro l’umanità; che l’Onu ritiene che sia in atto un genocidio (la volontà di sterminare una parte o tutta una popolazione); che ci sono stati circa 70.000 morti, l’80% dei quali civili; che l’accesso agli aiuti umanitari è stato interrotto da mesi; che la carestia regna nella Striscia di Gaza, mentre scorte alimentari inutilizzabili si accumulano a pochi chilometri di distanza.
Non è necessario saperlo, ma vale la pena ricordare che il riconoscimento dello Stato palestinese non sarebbe una ricompensa per Hamas, ma un’opportunità per Israele: un’opportunità per stabilire un rapporto meno conflittuale con gran parte del mondo arabo (come quello che lo stesso Netanyahu aveva promosso con gli Accordi di Abramo prima dell’inizio della guerra) e per costringere l’Autorità nazionale palestinese ad assumersi le proprie responsabilità nazionali e internazionali nella lotta al terrorismo.

Non è necessario saperlo, ma vale la pena evidenziare che la Dichiarazione di New York, promossa da Francia e Arabia Saudita la scorsa settimana, sarebbe stata accettabile per Israele in altre circostanze. Include, infatti, il disarmo di Hamas e il veto a un Governo islamista, nonché il rilascio di tutti gli ostaggi e la creazione di un Governo civile.
Non sarebbe impossibile raggiungere un accordo per istituire una forza di interposizione, per determinare chi abbia il controllo dell’accesso e come portare a termine la ricostruzione. È importante sapere, per respingerla categoricamente, che una soluzione che imponga un esodo forzato a quasi due milioni di persone costituirebbe un grave attentato alla loro dignità.
È anche importante sapere che l’economia e la prosperità di Israele dipendono dalle sue relazioni con il mondo esterno (in particolare con l’Ue). È importante saperlo per decidere quale tipo di sanzioni applicare.
Non è necessario conoscere i dettagli di come la Terra Santa, a partire dalla fine del XIX secolo e soprattutto durante il disastroso mandato britannico all’inizio del XX secolo, abbia iniziato a diventare un angolo di mondo in cui la pace sembra impossibile (dettagli splendidamente raccontati da Benny Morris nel suo ultimo libro). Non conosciamo tutti i dettagli, ma conosciamo il nocciolo della questione: esercitiamo violenza verso l'”altro” quando lo consideriamo nemico della nostra felicità, la radice del nostro malessere.
Il nostro contributo alla pace deve tenere conto dell’ecologia umana: il primo contributo che renderà possibile il resto è il raggiungimento di uno stato di armonia con noi stessi che non ha bisogno di distruggere nessuno. Si chiama gioia.
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