Mattarella ha richiamato la questione salariale e tra poco più di un mese si vota un referendum che potrebbe sconfessarlo
Non ha tutti i torti Sergio Mattarella quando si preoccupa dei bassi livelli salariali in Italia (e poco conta se nell’intervento per il Primo Maggio, l’altroieri a Latina, il presidente ha corretto a braccio salari “insufficienti” in “inadeguati”). Il problema non riguarda la comunicazione del Quirinale, ma la ragione prima per cui il Pd di Mattarella non ha mai vinto le elezioni politiche, ha anzi perso nettamente le ultime due. Ed è accaduto mentre i “dem” hanno ininterrottamente occupato il Quirinale e quasi per altrettanto le stanze di governo.
I bassi livelli salariali sono l’eredità lunga di una trentennio inaugurato dal primo Ulivo di Romano Prodi, grande venditore di aziende pubbliche da mettere a profitto privato a danno di occupazione e salari. Economista industriale incapace, come capo di governo, di trasformare le privatizzazioni in stimolo per la produttività dell’Azienda-Italia, cioè anche in molla economica reale per l’aumento dei salari (o quanto meno come garanzia di sicurezza per i salariati in transito sui ponti autostradali).
Presidente della Commissione Ue, Prodi è apparso preoccupato solo di farsi perdonare di essere italiano dalla diarchia franco-tedesca: la prima austerity (la svendita obbligata di Telecom piuttosto che la “tassa sull’Europa”) all’Italia l’ha imposta lui, assai prima che Napolitano e Mario Monti somministrassero ai loro concittadini quella dettata dall’Ue.
Ora Mattarella – figura di primo piano di un’intera stagione, da Prodi fino a lui stesso – alza la sua voce istituzionale per dar sfogo a una frustrazione squisitamente politica: quella portatagli dai silenzi o quasi della segretaria del Pd Elly Schlein. Ma più passano i mesi, più cresce l’impressione che quello di Schlein sia un atteggiamento intenzionale, suggerito dalla preoccupazione di non lasciarsi coinvolgere in alcuna delle battaglie di retroguardia personale di Mattarella e Prodi.
Fra queste, quelle di un presidente della Repubblica che sembra rivestire sempre più i panni del predecessore-picconatore Francesco Cossiga, pur di continuare a svolgere un ruolo che la storia politica recente – prima ancora che la Costituzione tuttora in vigore – gli precluderebbero.
Il salario è il prezzo di un mercato: quello del lavoro. Sul quale in Italia il Governo (non il Quirinale) ha il potere/dovere di vigilare e se necessario intervenire, richiamando e orientando le parti sociali e aggiornando le normative-quadro. Lo ha fatto un decennio fa il Governo di centro-sinistra presieduto da Matteo Renzi: allora anche segretario Pd e king-maker di Mattarella al Quirinale.
Il Jobs Act è stato l’unico frutto reale del quinquennio Letta-Renzi-Gentiloni. Ma la riforma non ha aumentato né l’occupazione, né i salari: era a gittata medio-lunga e ha infine infilato Covid e crisi geopolitica. E fra cinque settimane gli italiani saranno chiamati ad abrogarlo via referendum popolare: chiamato dalla Cgil, non dalle destre-populiste-eccetera (che intanto sono tornate al Governo per via democratica). Questa è la democrazia reale, all’opposto dei girotondi di “nuova Resistenza”. E se il referendum cancellerà il Jobs Act non sconfesserà solo Renzi (nel frattempo uscito dal Pd a trazione cattodem), ma anche il capo dello Stato.
Maurizio Landini, leader della Cgil, non manca di battere sul tasto oggettivamente dolente del ristagno salariale: ma fa il suo mestiere di sindacalista e si guarda bene dallo strumentalizzare i bassi salari italiani per lanciare anatemi contro il trumpismo avanzante. Può darsi che un domani vedremo Landini ministro del Welfare in un Governo Schlein: ma lo decideranno gli elettori. In una sana democrazia (di mercato) il primo dovere civico è rispettare il proprio ruolo.
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