Per ora non ha compiuto scoperte eclatanti ma ha comunque tutti gli elementi per essere considerato un avvenimento scientifico rilevante di questo 2019: ci riferiamo all’allunaggio della sonda Chang’e-4, lanciata dalla agenzia spaziale cinese (Cnsa) un anno fa e che il 3 gennaio scorso ha depositato sul suolo lunare un lander-laboratorio e un rover. La novità sta nel fatto che l’allunaggio è avvenuto sulla faccia nascosta del nostro satellite, quella che da Terra non si riesce mai a vedere grazie al particolare sincronismo dei moti di rotazione e rivoluzione della Luna. In verità il lato B lunare l’abbiamo visto per la prima volta attraverso le foto scattate dalla cosmonave sovietica Luna 3 che lo ha sorvolato nell’ottobre 1959; e i primi occhi umani che hanno contemplato direttamente quella butterata superficie misteriosa sono stati quelli di Borman, Anders e Lovell dagli oblò dell’Apollo 8 la vigilia di Natale del 1968. Ma Chang’e-4 ha conquistato il record di aver per la prima volta portato un manufatto umano, cioè un’estensione della nostra conoscenza e del nostro ingegno, a toccare la faccia nascosta.
Il valore aggiunto di questa notizia, oltre al contenuto scientifico per tutto quello che si potrà scoprire circa il suolo e la dinamica lunare, è la concomitanza con la ricorrenza di un altro evento di risonanza epocale: il primo sbarco umano sulla Luna avvenuto 50 anni fa con gli astronauti Armstrong e Aldrin discesi dall’Apollo 11 col Modulo Lunare. È stato solo un anniversario ma la sua celebrazione ha avuto il peso di un avvenimento scientifico di primo piano, come se tutti noi avessimo riscoperto la pallida Luna con il carico di suggestioni, simboli e domande che da sempre esercita sull’uomo. Dal punta di vista astrofisico restano ancora pochi interrogativi aperti sul nostro satellite ma averlo riportato alla ribalta scientifica ha subito rilanciato l’interesse verso altri satelliti di altri pianeti e poi ancora verso altri pianeti di altri Soli dove si cercano, con strumenti e metodi sempre più potenti, evidenze di forme e strutture geologiche, chimiche e, forse, biologiche simili a quelle presenti sul nostro pianeta.
Così siamo condotti a un’altra scoperta che ha movimentato la comunità astronomica nei mesi scorsi: un gruppo di ricercatori dell’Università di Berna ha annunciato di aver scoperto molto probabilmente un esosatellite, cioè il satellite di un esopianeta ovvero di un pianeta extra solare. La scoperta di pianeti che orbitano attorno ad altre stelle è uno dei fatti scientifici più interessanti di questi ultimi anni: da quando si è avuta l’evidenza del primo esopianeta, 51 Pegasi b nel 1995, il loro numero è enormemente aumentato ed ora se ne contano quasi 4000. Non era però mai stata individuata nessuna luna di questi pianeti, anche se la scoperta era nell’aria. La candidata al podio di prima esoluna orbiterebbe attorno all’esopianeta WASP 49-b a sua volta orbitante attorno a una stella posta a 550 anni luce dalla Terra. La sua carta d’identità però non la accomuna alla nostra Luna ma piuttosto alle lune vulcanicamente attive che circondano Giove, come il satellite Io già osservato da Galileo oltre 400 anni fa e fotografato da vicino sul finire del secolo scorso dalle sonde Voyager e Cassini e immortalato dalla fotocamera del Telescopio spaziale Hubble.
Sempre in campo astrofisico ma in un contesto ben diverso troviamo la notizia scientifica che più ha occupato le prime pagine di tutti i quotidiani nell’anno passato: è quella corredata dall’immagine indicata, con qualche imprecisione, come la prima foto di un buco nero. La foto non è stata ripresa da un grande telescopio ma da una rete di osservatori distribuiti sulla superficie terrestre che hanno agito come un unico megatelescopio applicando il metodo interferometrico. Con tale metodo gli scienziati del consorzio EHT (Event Horizon Telescope) hanno potuto mostrarci non tanto l’invisibile buco nero bensì l’ombra che lo circonda, più precisamente quello che gli astrofisici chiamano “orizzonte degli eventi”, offrendoci una suggestiva documentazione della sua tenebrosa presenza. Sappiamo che si tratta di un buco nero supermassiccio, quel che rimane al termine della travagliata vita di una stella che si trova al centro di una galassia ellittica gigante, denominata M87, situata a circa 55 milioni di anni luce da noi nell’ammasso della Vergine. La fotografia non ha solo avuto un grande impatto mediatico ma ha fornito un ulteriore contributo al consolidamento, semmai ce ne fosse bisogno, della teoria della relatività generale di Einstein, che disegna un cosmo intessuto nello spazio-tempo che si incurva attorno alle masse di stelle e galassie e guida la luce tra quelle curve fino ad illuminare i nostri cieli notturni.
Tornando sulla Terra ma viaggiando indietro nel tempo ci imbattiamo in una scoperta che arricchisce di nuovi particolari l’affascinante racconto dei primi passi dei nostri progenitori. Un articolo pubblicato in aprile sulla rivista scientifica Nature ha riportato i risultati di un lungo lavoro di un gruppo di paleoantropologi che – in una grotta nell’isola filippina di Luzon – hanno portato alla luce alcuni resti fossili (denti, femori e ossa del piede) di un antenato vissuto da quelle parti tra i 50.000 e i 67.000 anni fa. I reperti e gli studi collegati offrono molti elementi per parlare di una specie, denominata Homo Luzonensis, coetanea con altre vissute in Europa e in altre località dell’estremo Oriente, come l’uomo di Neanderthal, l’uomo di Denisova, l’Homo Floresiensis e naturalmente l’Homo sapiens. Serviranno ulteriori indagini, analisi e confronti per confermare l’esistenza della nuova specie e ricostruire meglio il lungo cammino che, a partire da circa 2 milioni di anni fa ha visto scorrazzare per le pianure africane, europee e asiatiche dei cacciatori come l’uomo di Luzon, altri poco più di un metro e capace di costruirsi i primi strumenti scheggiando le pietre.
Infine, in questa rassegna di traguardi scientifici del 2019, non poteva mancare la tappa della matematica che è stata una tappa doppia. Il matematico dell’università di Bristol Andrew Booker ha infatti trovato, a distanza di pochi mesi, le due soluzioni mancanti all’appello per una singolare equazione detta diofantea. Tali equazioni prendono il nome da un celebre matematico greco del terzo secolo, Diofanto di Alessandria (d’Egitto), e sono equazioni a più incognite delle quali si cercano le soluzioni solo con numeri interi: quella affrontata da Brooker, e risolta col supporto di un supercomputer del MIT (Massachusetts Institute of Technology), riguarda tre numeri (positivi o negativi) che elevati al cubo e sommati diano un numero tra 0 e 100. Erano già state trovate tutte le soluzioni tranne che per 33 e 42: all’inizio dell’anno il matematico inglese ha risolto il caso del 33 e in settembre quello del 42. Non si tratta comunque solo di un gioco per appassionati di numerologia; molte equazioni come queste consentono di risolvere problemi concreti. E la sfida non è terminata. Ora che le soluzioni sono state trovate per i primi 100 numeri, i matematici pensano di alzare l’asticella e passare ai primi mille. Per questo Booker e i suoi colleghi si sono già rimessi al lavoro.