Una mattina spesa a scuola, non in piazza, per raccogliere la giusta indignazione dei giovani e far loro capire cosa viene prima della protesta
Non basta certo uno sciopero, ne servono altri, infatti le città sono state ancora invase da cortei di protesta, dentro un grido collettivo più forte del primo, sicuramente in seguito agli accadimenti degli ultimi giorni. Volenti o nolenti, ci siamo trovati a solcare le onde, criticando o sognando, lodando o deprecando chi guidava quelle imbarcazioni. Fatto sta che quel navigare impetuoso ha tenuto desta l’attenzione, in apnea il respiro, in sussulto il cuore di tantissimi, se non tutti.
Serve lealtà e purezza di spirito per riconoscerlo, ma non possiamo non dire che quell’impeto ha sorpreso, stupito, scandalizzato, come soltanto ogni moto profondamente umano riesce a fare. Dopo, possiamo dire tutto il resto, fra distinguo e criticità.
Rimane tuttavia quel movimento iniziale, fra le onde esterne del mare e quelle interne del cuore, che ha creato un attimo di silenzio, uno squarcio nel cielo di carta in cui il re si mostra nudo davanti a desideri infiniti e visioni altere di chi non accetta l’ignavia. Negare quell’attimo è disumano, il resto viene dopo e dobbiamo sicuramente farci i conti, ma è soltanto tenendo conto anche di quell’attimo iniziale che possiamo affrontare la sfida educativa coi nostri ragazzi.
Come sarebbe altrimenti facile cadere nell’una o nell’altra ideologia! Come invece è esaltante accettare la sfida di tenere dentro tutto, proprio tutto, perché niente di meno del tutto basta per un giudizio umano!
Come è accaduto l’altra mattina nelle mie classi, quando, invece di andare in piazza, ho accettato la sfida di stare con loro davanti a quel che stava succedendo, pur non essendo la loro docente di storia.
Così, entrando in aula, non ho consegnato loro bandiere di nessun colore, né ho detto loro cosa fare, perché ognuno deve verificare personalmente se la mossa che ha scelto risponde compiutamente al desiderio che lo muove. Erano confusi, un po’ indecisi, frastornati dal precipitare degli eventi e stare con me in aula sicuramente è parsa loro una scelta più adeguata per trovare una strada utile alle loro domande.
Così, in ognuna delle mie classi, abbiamo ripercorso sinteticamente i passi della storia del conflitto, la vita drammatica dei due popoli, la tragica spirale di violenza reciproca mai definitivamente risolta; abbiamo spiegato parole chiave, abbiamo citato fatti, abbiamo guardato carte geostoriche: tutto quel che serve per conoscere il dato, prima di tentare un giudizio.

Il silenzio in aula non è mai stato così vero e partecipato, con tante domande e grande interesse, soprattutto perché qualcuno finalmente si era preso la briga di stare con loro, dialogare su quanto stava accadendo, raccogliendo timori e dubbi. Non sapevano niente ed avevano in mente solo qualche immagine e qualche slogan: né in famiglia, né altrove qualcuno li aveva ancora resi degni di partecipare alla vita del mondo, né i docenti troppo presi dai loro “programmi”, né i familiari che “tanto noi non cambiamo nulla”.
Perché dunque poi ci meravigliamo se seguono chi offre loro qualcosa in cui credere, qualcuno che offre loro un modo per esserci? Perché ci scandalizziamo se le piazze rigurgitano di giovani che seguono un adulto che gli ha dato una bandiera davanti al cancello della scuola? Perché ci scandalizziamo se tanti ragazzi/e lanciano grida antisemite, quando pochissimi di loro hanno presente la differenza con l’antisionismo, o sanno della diaspora o della risoluzione 181 dell’ONU?
Stamattina la ragazza incatenata al cancello ancora non sapeva che la missione della Flotilla era già bella che finita e praticamente conclusa, eppure era lì convintissima e appassionata ed io mi commuovevo per quel cuore maltrattato innanzitutto dagli adulti a lei vicini, che non la aiutano a leggere il reale, per cui lei era lì, proprio per rispondere al proprio cuore disordinato e folle di domanda di senso.
Questi giorni convulsi e disordinati hanno evidenziato l’imprescindibile necessità di rompere le dighe delle nostre tinozze, come diceva il grande bottaio di Edgar Lee Masters, e spaziare nella complessità del mondo in fiamme. In fiamme per l’odio e la guerra, ma in fiamme anche per la potenza del grido del cuore che, scompaginato e sparpagliato, si fa sentire ora come non mai, dalla piazza al piazzale scolastico.
Vogliamo cogliere questa opportunità, quest’occasione eccezionale? Ogni luogo diventi dunque spazio educativo ogni dialogo diventi seme di pace, ogni contrasto dialettico diventi rilancio verso il bene comune, che è innanzitutto accogliere la domanda di felicità, di bene, di giustizia dell’altro, chiunque esso sia.
Il dialogo coi miei ragazzi conferma il bisogno dilagante di presa in carico non della giusta versione delle cose, ma della corretta posizione del cuore. Accettiamo questa sfida misteriosa, o sarà il nulla a dilagare, travestito da verità stantie o barbarie disumana.
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