Adrian Belew (al secolo Robert Steven Belew) in gioventù è attratto dalle percussioni, ma approda presto alla chitarra invaghito dai possibili timbri che da questa si possono estrarre. Viene scoperto nel 1977 da Frank Zappa, scippato da David Bowie, portato da Brian Eno nei Talking Heads e agguantato da Robert Fripp per i King Crimson anni ’80 a cui rimarrà legato anche nelle successive lineup degli anni ’90 e 2000.
Tra le molte collaborazioni e gli impegni con i King Crimson, riesce a far fiorire una magnifica carriera solista in cui si cimenterà negli stili più diversi, compresa la colonna sonora orchestrale del cortometraggio Pixar nel 2016 “Piper”. Di lui Bill Bruford tesserà le elogi nella propria autobiografia: “Adrian possedeva (…) una voce ‘quasi beata’, dotata di una chiarezza estranea al mondo del rock. (…) era sempre pulita, intelligibile, ritmata, elegante (…) Adrian era anche un batterista niente male” (una laurea ad honorem). Tutt’altro che serioso si presenta con la semplicità tutta americana del vicino di casa che ti invita a partecipare alla grigliata nel suo giardino. Ma nasconde uno studio incessante della chitarra come strumento da reinventare continuamente (Frank Zappa dixit). Possiede l’entusiasmo del bambino che vuole mostrare i nuovi giocattoli appena scoperti. Adrian Belew è in grado di assorbire velocemente gli stili musicali altrui, ma nello stesso tempo sviluppa una propria voce molto riconoscibile fatta di morbidi passaggi da una nota all’altra; è dotato di un senso della melodia con cui riesce a costruire deliziose canzoni pop o estrarre linee vocali su aspre basi strumentali; compone con grande senso dell’equilibrio: senza mai assoli fuori posto, tutte le parti sono sempre al servizio della composizione, riuscendo sempre a rendere scorrevoli invenzioni complesse. Il tutto con il senso del ritmo, elogiato poc’anzi da Bruford, che gli permette di orchestrare con pepe qualsiasi brano. Dei Beatles potrebbe essere considerato l’erede per la capacità di creazione melodica e costante ricerca. Infatti, se tanta produzione si può considerare pop, è solo nel senso di una ricercata facilità di fruizione: ogni melodia è un’ opera dell’ingegno.
Premesso che non esistono, nella sua discografia, dischi inutili scegliamo come percorso questi dieci dischi: dal migliore al migliore.
LONE RHINO (1982)
Nel disco di esordio della sua carriera, Adrian riesce a realizzare l’ossimoro di una sorta di ‘progressive punk’ (si ascolti ad esempio The Mormur, Adidas In Heat o Swingline). Progressive inteso come intelligente tensione a cercare nuove vie, unito a una sorta di ritmica isterica mai doma, una stile teso alla brevità, insofferente ad indugi. In questo esordio mostra un gusto zappiano per un giocoso andamento rapsodico, un buffo accostamento di insolite cellule musicali. Livello: disco da portare sull’isola deserta.
YOUNG LIONS (1990)
Dopo 3 dischi negli anni 80 arriviamo a questo che viene concepito durante il tour con Bowie che partecipa in due brani: incomincia a venire allo scoperto l’amore per la tradizione americana come l’omaggio a Roy Orbison di “Not Alone Anymore” dei Traveling Wilburys o al suono della Motown di “Looking For A Ufo” (Sto cercando un ufo/ sto cercando attraverso il mio telescopio/ qualcuno con un raggio di speranza). Nello stesso tempo approfondisce la costruzione di basi musicali su inserti parlati. Riceve da un amico le registrazioni di un anonimo predicatore (Prophet Omega) nella cui voce riconosce una sorprendente forza ritmica. Costruisce così una musica tribale futuristica su cui scorrono le frasi tagliate e montate del predicatore. Una rielaborazione creativa del rap. Troviamo la autocover, compiutamente pop, di Heartbeat con un assolo di ventisei secondi perfetto per la concisione e l’ampiezza della tavolozza di colori stesi per passare dalla stasi iniziale al picco emotivo della ripresa del ritornello; e l’amore e la preoccupazione per la natura, così ricorrenti nella sua produzione, in Men In Helicopters che successivamente troverà compimento in una versione per quartetto d’archi. Leggerissimo come il pop anni 60.
INNER REVOLUTION (1992)
In questo disco avviene la fioritura della sua anima beatlesiana come in Big Blue Sun, Birds o Everything, mentre I Walk Alone potrebbe essere scritta da Roy Orbinson. E’ l’esplosione di una gioiosa sentimentalità: insieme al precedente Young Lions e il successivo Here sarebbe potuto essere un disco di hit radiofoniche. Un altro di quei dieci dischi da portare sull’isola deserta o da ascoltare nelle giornate di nebbia invernale.
THE ACOUSTIC ADRIAN BELEW (1993)
Dopo la fine del contratto con la casa discografica incomincia la autoproduzione e autopromozione della propria opera: ripropone una versione acustica di una raccolta di canzoni del decennio passato. Un ricercatore come lui potrebbe rischiare di perdersi tra gli effetti speciali come diversi chitarristi solisti bravissimi ad inserirsi in contesti altrui, ma non capaci di scrivere canzoni o brani dello stesso livello. La sua grandezza sta invece nell’essere prima di tutto un autore capace di comporre con gusto. Questo disco spoglio di curiosità timbriche particolari è l’occasione per apprezzare quanto le sue canzoni siano in grado di stare in piedi con le proprie gambe. (menzione speciale per aver evitato la parola unplugged così di moda in quegli anni)
GUITAR AS AN ORCHESTRA (1995)
Nuovo cambio di direzione dopo l’esplorazione pop dei dischi precedenti. Il nostro riproduce i suoni di un’orchestra e realizza un affresco di musica classica contemporanea pieno di dissonanze, cascate al pianoforte, orchestre d’archi e atmosfere oniriche, solo con la chitarra filtrata dalle nuove generazioni dei sintetizzatori della Roland. Un’aspra bellezza, antitesi del pop.
OP ZOO TOO WAP (1996)
In questa opera l’anima zappiana del rapsodico “di palla in frasca” raggiunge il suo apice. Brani brevi da un minuto a quattro minuti interrotti da rumori; suoni irritanti e sentimentali melodie; parole declamate sopra la batteria; dichiarazioni d’amore per la sei corde del rock; canzoni spezzate e riaffioranti qua e là; testi surreali e pesci che si tuffano nell’acqua; una chitarra equilibrista acclamata e derisa dal pubblico.
Lo svegliarsi di ogni giorno con la curiosità di quello che accadrà in “On” (“guarda al mondo di possibilità/ ciò che accade e dove andremo/ e c’è una specie di libertà nel sapere/ che è un po’ oltre il nostro controllo/ che la vita continua ad andare avanti”), il White Album di Adrian Belew. Ancora un altro disco da isola deserta. (ma perché poi stare su un’isola deserta?! E perché portarsi solo dieci dischi?!)
SIDE ONE (2005)
Dopo la versione nu-metal dei King Crimson anni 2000 la carriera solista continua come power trio (chitarra, basso, batteria) con side one (seguito a breve da un side two di musica realizzata attraverso loop elettronici, e side three col materiale in eccesso). Coadiuvato da Les Claypool (Primus) al basso e Daney Carey (Tool) alla batteria, da lì a poco scoprirà e promuoverà i giovani fratelli Slick: Julie al basso, che rimarrà come elemento fisso nella sua band, ed Eric alla batteria. Stile chitarristico da guitar hero presentato con gigionesca autoironia grazie alla sua naturale simpatia. D’altra parte, durante il campus “Three of a perfect camp”, che Belew, Levin, Mastelotto propongono ogni estate, è d’obbligo una serata Beatles intorno al fuoco. Canzoni come Ampersand o Writing On The Wall, rinfrancano sul senso di fare ancora rock nel nuovo millennio. E un brano come Madness appaga chi sente già la mancanza dei King Crimson. “Se un uomo non può imparare a piegarsi/ come una canna fa nella brezza/ quando potrà mai comprendere/ tutti i dolci misteri della vita” (Walk Around The World)
“E” (2009)
Julie ed Eric Slick partecipano anche alla registrazione di “e” un disco strumentale composto da cinque parti (indicate con le lettere dell’alfabeto): la realizzazione di un’opera complessa come non si sentiva dal progressive degli anni ’70, nello stesso tempo essenziale, senza fronzoli, con un ritmo sempre sostenuto come un power trio richiede. Un’opera completamente inserita nella fine del primo decennio, pienamente rock, ma articolata come non si vedeva da anni.
FLUX VOL. 1 (2016)
Nei primi anni ’10 Belew si dedica al progetto Flux la cui fruizione prevedeva una app della Apple e solo nel 2016 viene rilasciato su CD in tre volumi. L’arte è ovviamente un frutto del pensiero umano, una modalità con cui possiamo meditare sulla nostra esperienza e giudicarla, un modo per trovare “il bandolo della matassa”: “la vita andava a testa alta e adesso è sottosopra/…/ i piccoli singhiozzi della vita/…/non saremo mai privi dei piccoli misteri della vita” (Life’s Little Hiccups). E se la vita, come diceva John Lennon, è quello che capita mentre stiamo facendo qualcos’altro, come facciamo a “catturare” l’imprevedibilità di quello che può accadere? Il pensiero realizza un’opera che, per forza di cose, cristallizza la fluidità dell’imprevisto e la fissa in una forma definita. Un oggetto solido a cui, per sua natura, manca la possibilità di adeguarsi alla novità delle circostanze: ascolto dopo ascolto la sua fruizione reiterata porta ad una logica prevedibilità.
Come si può mantenere la freschezza del primo ascolto? Come mantenere la freschezza?
Durante il tour di David Bowie del 1978, Adrian Belew si ritrova in Francia a Marsiglia: “Stavo seduto all’esterno tra due caffè. Bella giornata. Entrambi con la porta aperta. Ed entrambi sintonizzati su radio differenti. (…) di fronte a me c’era il porto nel pieno delle sue attività. Il suono delle barche, dei motori, l’acqua, i gabbiani, gente che passeggia parlando in francese, auto che passano, bambini che giocano, il suono della campana di una barca, e tutto questo interrompe i diversi tipi di musica che suonano ai miei lati. Ricordo di aver chiuso gli occhi e di aver ascoltato questa bella cacofonia; il suono della vita. e ho pensato: “è così che voglio che la mia musica suoni un giorno, musica interrotta dalla vita, interrotta dalla musica”. Da quel momento in poi ho cercato di capire come potrebbe essere possibile. Col tempo ho aggiunto altre idee. E se, proprio come la vita, la musica non si ripetesse mai? e se fosse sempre diversa, sorprendente? come avrei potuto farlo? Nel corso dei decenni dal 28 maggio 1978 sono tornato ancora e ancora su questa idea fino a diventare una blanda ossessione. Sapevo che prima o poi sarebbe stato qualcosa che avrei dovuto fare.”
“Op Zop è il prototipo di FLUX senza la possibilità di essere ‘mai due volte la stessa musica’. il meglio che potevo fare in quel momento era avere frammenti veloci tra le canzoni, canzoni che sarebbero state brevi o abbreviate solo per apparire di nuovo in seguito, una grande dose di effetti sonori e transizioni a sorpresa con alcune tracce che si snodavano nella successiva. E’ la produzione, così come il materiale, che ha reso questo disco così speciale per me. Anche oggi è uno dei miei preferiti.”
FLUX è il risultato di questo tentativo: tre CD di una cinquantina di tracce a disco, composte da canzoni, riprese delle stesse ridotte a pezzettini, echi texmex, bozze di idee o anche solo qualche secondo di prove di effetti, rumori, il tutto decostruito secondo una sensibilità post moderna e ricostruito secondo una funzione casuale che permetta di sperimentare l’imprevedibilità di cosa sta per accadere.
Tutta la vita entra, ed interrompe senza chiedere permesso, nel frullatore di Flux: dalla quotidianità, all’ansia per il futuro: “Il tempo è una macchina da scrivere/la vita è una pagina/ si scrive troppo velocemente/ si finisce lo spazio bianco/ perché non possiamo vivere per sempre?” (Time Is A Typewriter). Fantasticherie: “vorrei essere una navicella spaziale/ … / nello spazio profondo c’è una razza aliena/ che dà il benvenuto agli esseri umani” (Rocket Ship) e nostalgie dell’infanzia: “vorrei che potesse essere così semplice ancora/ vorrei potesse essere innocente…/ innocente” (Back In The Day)
Forse è qui l’origine di quell’andamento rapsodico che ritroviamo dalle prime opere: il bisogno che irrompa continuamente qualcosa di inaspettato, che ci spiazzi e ci tenga desti, innocenti, qualcosa che sia sempre nuovo, un Montaliano imprevisto: “i piccoli singhiozzi della vita”.
In attesa del disco ‘Elevator’ di prossima pubblicazione finiamo coll’ultima opera disponibile
POP SIDE (2019)
Dopo quasi due decenni di power rock e alimentazione del flusso dell’imprevisto, torniamo ad un disco di canzoni orecchiabili da portare in tour, lievi come alcune canzoni di George Harrison. Canzoni da due minuti e mezzo, tre. “Sebbene il weekend mi abbia fatto barcollare/ sebbene piovesse nei miei sogni/ mi svegliai con il sole/ iniziò un’altra giornata/ e so che è il modo che ci aspettiamo che sia” Pop inteso come l’entusiasmo semplice così caratteristico dell’ homo americanus
Riprendiamo da Flux: “e se, proprio come la vita, la musica non si ripetesse mai? e se fosse sempre diversa, sorprendente? come avrei potuto farlo? Nel corso dei decenni dal 28 maggio 1978 sono tornato ancora e ancora su questa idea fino a diventare una blanda ossessione.”
Forse è questo il “pensiero dominante” dell’opera di Adrian Belew: il tentativo, attraverso le forme del rock o del pop, di partecipare sempre di più alla novità con cui la vita ci sorprende e attraverso la sua opera farne partecipi tutti.
Il tentativo di elaborare la musica della vita.