Si aprirà in primavera, allo Spazio Ilisso di Nuoro, un’importante mostra di Francesco Ciusa, artista precoce, magnificato e poi dimenticato

Si aprirà in primavera, allo Spazio Ilisso di Nuoro, un’importante mostra di Francesco Ciusa (Nuoro 1883-Cagliari 1949). Vediamo allora in breve la singolare storia di questo artista, oggi meno conosciuto di quanto meriterebbe. È la storia di un successo strabiliante e precoce, che poi lentamente si tramuta in un crescente e ingiustificato oblio.



Nel 1907 Ciusa espone alla Biennale di Venezia il suo capolavoro, La madre dell’ucciso. L’opera rappresenta una veglia funebre e si ispira a un fatto realmente accaduto. L’abito dimesso della donna, la povertà dei suoi piedi scalzi, la sua posizione rannicchiata per terra e, più ancora, la sua espressione, la sua atavica rassegnazione a un destino considerato ineluttabile, sembrano tratti da una cronaca vera, che riecheggia in parte un ricordo dello scultore:



“Nella Serra di Nuoro avevano ancora ucciso un pastore e del figlio, sparito, non si sapeva nulla. La vedova, seduta per terra veniva terrorizzata dai singulti di pianto delle prefiche, piegate intorno al focolare spento. Il volto della donna impietrito dal dolore, accompagnava cupo le parole che lente, rauche, uscivano a stento dalla bocca malferma. ‘Oh! no, certo me l’hanno finito. Peggio di cagna rognosa, misera mi sento, e smarrita, smarrita e persa sono nel mondo’”.

L’opera coglie però il momento successivo a quelle parole, quando la donna si chiude nel silenzio e, come la Rachele biblica, non vuole nemmeno essere consolata. C’è tutta la disperazione del lutto, ma anche la dignità dell’orgoglio, in quel dolore di una madre che, per citare il poeta russo, “non diceva più nulla, ma il suo cuore mandava gridi”. La scultura diventa così una meditatio mortis, venata di stoicismo.



L’intensità dell’opera, d’altra parte, si alimenta di una serie di reminiscenze che la arricchiscono e la completano.

La maggior innovazione consisteva nel collocare la figura a terra, come aveva fatto Achille d’Orsi con lo zappatore di Proximus tuus, 1880, ma questo e altri echi si fondevano però in una scultura nuova, impostata su una geometria astratta ma viva. Com’era consuetudine, anche nel 1907 la Biennale di Venezia si apre il 25 aprile, festa di San Marco. Due giorni dopo l’inaugurazione Ugo Ojetti, uno dei critici allora più autorevoli, non lesina gli elogi per l’opera dell’esordiente scultore: “Un sardo ignoto, credo, finora alle grandi esposizioni, manda un gesso La madre dell’ucciso così profondamente osservato, reso con tanta coscienza, costruito con tanta scienza che mi sembra sia la più importante rivelazione della mostra di scultura”.

Al lampo critico di Ojetti segue il tuono di tanti interventi che lodano il giovane artista e che in breve si moltiplicano. Il realismo, la capacità di coinvolgimento, l’autenticità di sentimenti della scultura suscitano gli elogi maggiori. Ciusa diventa l’emblema di tutta la Sardegna: si individua e si esalta in lui l’interprete dello spirito dell’isola, il cantore del suo popolo e della sua terra.

Tra i giudizi meno antropologici e più attenti allo stile dell’opera spicca invece quello di un critico allora quasi sconosciuto, ma destinato a diventare tra i più influenti della prima metà del Novecento: Margherita Sarfatti. La scrittrice definisce l’opera “efficace senza teatralità nella sua espressione di contenuto dolore tragico” e ne coglie acutamente la drammaticità priva di retorica.

Per una sorta di contrappasso, d’altra parte, proprio quel successo precoce è stato all’origine nei decenni successivi di un appannarsi della figura di Ciusa sul piano nazionale: un oscuramento ingiusto ma comprensibile, come spesso capita agli enfant prodige. Già nel 1909 il critico fiorentino Diego Angeli si interrogava sulle ragioni di una sfortuna critica che seguiva alla precedente e troppo conclamata fortuna. Ciusa, innalzato fino alla sommità del Campidoglio, subito dopo era stato gettato dalla Rupe Tarpea, scriveva Angeli con una delle metafore classicheggianti care al gusto della Belle Époque.

Al di là della sua vicenda vertiginosamente altalenante, comunque, lo scultore spicca nel realismo dell’epoca per l’originalità della sua interpretazione. Quando rappresenta il tema del lavoro, per esempio, alla denuncia dello sfruttamento della manodopera sostituisce una visione sacrale dell’operosità dell’uomo e, più ancora, della donna. Esprime cioè tutta la dignità, anzi la nobiltà e, appunto, il valore sacro di cui è intriso il lavoro. Si allontana così non solo dagli accenti spesso enfatici del verismo sociale, ma anche dalle immagini eroicizzanti che mostravano operai dal corpo atletico e perfetto, simili a dei. Il suo realismo non è mai retorico e nemmeno angusto. Perché suggerisce che, oltre alla realtà che vediamo tutti, c’è una realtà più grande, che va cercata.

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