Somiglia a una danza l’incontro intenerito e commosso tra queste due madri, in attesa entrambe del loro primogenito. Mentre ne sorprende l’abbraccio, il Pontormo ci svela la gioia, intima e purissima, che da quegli sguardi trabocca. Forse l’artista ha inteso fissare, proprio nel palpito di un istante, il sussulto del figlio che Elisabetta si porta in grembo e che le consente di riconoscere in Maria, la Mater inviolata del suo Signore (cfr Lc 1,43).
L’evento si consuma sotto gli sguardi attoniti di due figure femminili in secondo piano – probabilmente le ancelle – testimoni mute del prodigio inedito di queste maternità: l’anziana cugina, non più fertile e tuttavia fecondata alla maniera delle donne sterili dell’Antico Testamento, e la giovane Maria, Mater castissima, adombrata dallo Spirito che, in lei, concepisce il Figlio dell’Altissimo.
È la soglia della casa di Elisabetta il luogo stabilito per questo appuntamento, dal quale proseguirà il suo misterioso percorso la storia della Salvezza. Giganteggiano, le due protagoniste, rubando la scena a strade e palazzi cui il Pontormo dà forma e volume con l’unico scopo di fornirci le coordinate spazio-temporali della narrazione.
Pur non avendo l’artista una particolare sensibilità religiosa – a proposito della sua Deposizione, il Briganti osserva come “i volti attoniti e sofferenti […] esprimano una tristezza così disperata e languente che non può certo dirsi dolore cristiano” (cfr G. Briganti, La Maniera italiana, Sansoni editore, Firenze, 1985, p. 25) – in quest’opera tuttavia sembra trattare di un fatto realmente accaduto, i cui elementi sceglie di trasporre nel suo presente come a significare che l’evento in qualche modo lo riguarda e ci riguarda tutti, anche ora, dopo duemila anni di storia.
L’ingombro dei corpi, appesantiti dalla gravidanza, non impedisce la levità delle movenze tacitamente nutrite dal fiotto di un’interiore armonia.
Si fissano e si penetrano queste due umanità protese in uno slancio vigoroso e insieme trattenuto. A dominare è il silenzio, prolungato e vibrante, che contagia della sua musica la flessuosa eleganza di queste figure femminili. Pochi attimi ancora e a romperlo sarà Maria, con il cantico di gratitudine del Magnificat.
La pacatezza vetusta di Elisabetta non contrasta con la prorompente giovinezza della Madonna, il cui atteggiamento, di umile consegna, azzera di schianto ogni distanza sia fisica che temporale.
Le vesti che avvolgono in un ampio e ricco panneggio le quattro donne al centro della scena, ci impongono un paragone ardito e tuttavia veridico con Michelangelo – di soli vent’anni maggiore del Pontormo – che taluni critici hanno assimilato più alla maniera che neanche al rinascimento (cfr G. Briganti, op. cit., p.17).
Impossibile trascurare, al riguardo, l’impatto visivo che qui ci offre l’artista grazie soprattutto al suo coraggio cromatico, che accende di cangianti luminescenze i colori degli abiti – intenzionalmente complementari tra loro – come pure le tinte morbide e calde dei copricapi, ala cui impalpabile consistenza riveste, avvolge e accarezza la perfetta armonia e il composto equilibrio dei volti.
Relegate in un oscuro anfratto della via, quasi si trattasse di presenze del tutto casuali e comunque estranee all’evento in primo piano, si scorgono le sagome incerte di due personaggi che a taluni è piaciuto identificare con le figure di Zaccaria e Giuseppe. Perché il Pontormo, in questo dipinto, abbia voluto attribuire anche a loro un ruolo sia pure marginale, non ci è dato di sapere. Certo è che questi due padri sembrano non rifiutare un posto così in ombra: umilmente sottomessi a un disegno misterioso, si piegano dunque alla volontà dell’Altissimo riconoscendo in Maria e in Elisabetta le vere protagoniste di una storia che previene e sopravanza anche la loro, senza in alcun modo privarli di quella umanità povera, ma preferita, di cui fin dall’origine sono impastati.