Si inaugura oggi a Milano una mostra-omaggio di Angelo Vaninetti, interprete tra i più acuti e intensi della Valtellina. Fino al 21 novembre
Si inaugura oggi nello Spazio Isola di Palazzo Lombardia a Milano una mostra-omaggio di Angelo Vaninetti (Regoledo di Cosio, Sondrio, 1924-1997). Chi ama la Valtellina – e chi non la ama? – non potrà non appassionarsi alla pittura di questo artista, che della sua terra è stato uno degli interpreti più intensi di tutto il Novecento.
Certo, in arte le classifiche sono sempre improprie. Tuttavia, mentre tanti pittori valtellinesi di nascita o di adozione hanno esplorato altri temi, estranei alla loro terra, e molti si sono soffermati solo sul paesaggio, pochi invece come Angelo Vaninetti ne hanno espresso la realtà in tutti i suoi aspetti, dipingendone non solo la poesia, il carattere, l’esperienza ma, per così dire, la dignità.
Non c’è in Vaninetti nessun interesse folcloristico o, peggio, la ricerca di qualche motivo pittoresco, tantomeno il desiderio di falsare le cose che lo circondano per renderle più decorative, più suggestive e magari più eleganti. C’è piuttosto la capacità di vedere, al di là di quello che vedono tutti, quello che vede solo lui: un modo di vivere che diventa una filosofia di vita.
Pensiamo, per esempio, alla Porta rossa con cielo azzurro, 1989. È un uscio di legno incastonato nella pietra, acceso approssimativamente di pennellate rosse e di ditate di colore bianche. Quando quella porta è stata dipinta non erano ancora i tempi degli accessi blindati, delle serrature elettroniche, delle lamiere e dei telai d’acciaio saldati al portone stesso.
O, meglio, erano già i tempi di tutte quelle cose, ma c’era ancora, e ancora resisteva, una civiltà intessuta di ritegno e di risparmio (in tutti i sensi), che era abituata ad accontentarsi di poco. E che però non era però insensibile all’armonia di un colore rosso come un geranio, di una tonalità aranciata come una striscia dell’arcobaleno (“L’arancio, il bel frutto della luce” scriveva Cendrars), di una tinta brillante che contrasta col blu brillante del cielo.

Su quella civiltà, che diventa la metafora di un modo di essere; su quella dimessità, vissuta senza lamenti, coraggiosamente, fino a diventare a volte una forma di religiosità (“Beati i poveri di spirito” è la prima delle Beatitudini evangeliche), Vaninetti ha riflettuto a lungo, e ha saputo tradurre i suoi pensieri in pittura, tanto da scrivere sulla sua terra un’enciclopedia visiva che nessuno come lui ha saputo scrivere.
“La mia arte è un lento e paziente recupero di una verità” amava dire. Anche un campanaccio, allora, può rivelarci tante cose, insieme a una vecchia cuccuma che non ci si sente di buttare via, a un mastello tenuto con cura anche se è ormai sciupato, o a un portacandela costruito in modo da non sprecare nemmeno un grammo della preziosa cera.
Ma non solo di dimessità ha parlato l’artista. Vaninetti ha saputo individuare la bellezza della sua terra: non quella eclatante delle vette e delle mete turistiche, che sono anche troppo note ed è fin troppo facile riconoscere, ma quella più segreta: una baita che si staglia all’orizzonte come una chiesa (Baita, 1989), un fiore alla finestra splendente come un diamante, un cardo che sembra orlato d’argento, una vegetazione introversa, una scodella di ceramica che pare intessuta nella neve. Piccole cose, che diventano grandi sotto il suo sguardo e il suo pennello. E diventano, soprattutto, un omaggio alla natura che le ha create, oppure a chi quelle cose ha saputo costruire, preservare, e con cui ha saputo convivere.
Vaninetti è stato un pittore di vocazione internazionale. Vicino idealmente al realismo esistenziale, è stato amico di Giacometti, di Varlin e di tanti artisti d’Oltralpe. È stato un protagonista del gruppo “Schleswig-Holstein 56”, formato da pittori stilisticamente diversi, come Gerhard Bettermann, Werner Rieger , Hanns Radau, Curt Stoermer, Albert Aeroboe, Gottfried Brockmann, Peter Kleinschmidt e altri, tutti attivi in quella regione settentrionale della Germania.
Vaninetti ha esposto, oltre che con loro, in altre città tedesche, in Svizzera, in Austria. Il suo linguaggio si è aggiornato sull’arte recente, pur rimanendo fedele a maestri molto amati, dai fiamminghi a Van Gogh. Nella sua pittura ha saputo esprimere anche i lati dolorosi della vita, ma sempre trovando la forza di scoprire, anche nel buio, qualche sprazzo di luce. Come confessava lui stesso: “Sono un lirico che attinge a una malinconia in cui non c’è mai angoscia, ma speranza”.
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