Le barriere di plastica nei ristoranti servono davvero come misura per contenere la diffusione del Covid-19 e mantenere basso il numero dei contagi o, al contrario, rischiano anche di essere potenzialmente dannose? Il dibattito è aperto e a fare un po’ di chiarezza, portando come al solito a supporto una raccolta di studi sul tema, è il “New York Times”: il quotidiano statunitense, infatti, in un lungo articolo ha messo assieme una serie di studi in merito all’utilità delle tanto discusse barriere di plastica o in plexiglass usate in molti ristoranti, esercizi commerciali e uffici, arrivando alla conclusione che, nonostante le ottime intenzioni, nella pratica questi ‘divisori’ si rivelino inefficaci nel bloccare la diffusione del nuovo coronavirus. Anzi, in alcuni casi possono diventare anche dannosi: vediamo perché.
La sintesi dell’articolata inchiesta condotta dal quotidiano della Grande Mela è che, anche in presenza di interazioni sociali brevi e poco significative nei sopra citati luoghi pubblici, le persone sarebbero esposte comunque al virus anche ove siano presenti le barriere in plastica. Infatti ciò che queste barriere darebbero è solo un falso senso di sicurezza dal momento che, come appurato oramai da una miriade di studi, il virus SARS-CoV-2 si propaga essenzialmente via aerosol: motivo per cui non solo i divisori in plastica sarebbero poco efficaci ma rischiano anche di diventare nocivi perché limitano il ricircolo dell’aria proprio nei luoghi chiusi, dando vita a delle “dead zones” in cui le concentrazioni virali possono diventare pericolose. Non va dimenticato inoltre il rischio che le particelle infette possano venire deviate dalle stesse barriere: secondo uno studio britannico che viene riportato, la vera efficacia delle barriere in plastica si ha per paradosso nei casi ‘estremi’, ovvero quando una persona tossisce e quindi si tiene a riparo il suo interlocutore, mentre quando si parla e si interagisce normalmente (la maggioranza dei casi) le particelle ‘galleggiano’ e si fanno beffe dei divisori.
BARRIERE DI PLASTICA ANTI-COVID: “ECCO PERCHE’ SONO NON SOLO POCO EFFICACI MA ANCHE…”
La conclusione a cui arrivano i vario studi ‘chiamati’ a raccolta nel pezzo del “New York Times” è che la presenza di una persona con un’alta carica virale in un luogo chiuso in cui siano presenti delle barriere in plastica costituisce un fattore di rischio comunque molto alto; la seconda conclusione, che invece è più una raccomandazione, è quella di non trascurare mai le oramai consuete misure igienico-sanitarie per scongiurare i contagi (mascherina, distanziamento, lavaggio delle mani), che siano presenti o meno i divisori o i pannelli in plexiglass. Insomma, dopo diversi mesi e con l’accumularsi degli studi sull’argomento, appare sempre più chiaro come le barriere non aiutino a diminuire i contagi e peggiorino la ventilazione soprattutto negli esercizi commerciali e i luoghi pubblici piccoli e sovraffollati. Gli studi citati dal NYT in merito proprio alla circolazione dei flussi d’aria e alle dinamiche dei contagi in queste situazioni non mentono.
Infatti, in condizioni definite “normali” le particelle di respiro che continuamente esaliamo si disperdono pian piano, e vengono trasportate via dalle correnti d’aria e, grazie ai sistemi di ventilazione installati in quel luogo ecco che a intervalli di 15-30 minuti vengono sostituite da aria fresca e pura. Così non è invece in quei locali dove ci sono molte barriere di plastica che, inevitabilmente, finiscono per ‘condizionare’ i flussi dell’aria e anzi inficiare la corretta ventilazione di quegli spazi. Il risultato? La genesi di zone morte dove le particelle virali si concentrano su livelli definiti molto pericolosi. Certo, questo non vuol dire che le barriere siano totalmente inutili o che non esistano situazioni dove possano essere efficaci: tante sono le variabili in gioco ma a vedere cosa accade quando una persona seduta in un bar, dove ci sono delle barriere di plastica, parla non è incoraggiante: “Le particelle più piccole si mescolano nell’aria del locale in meno di cinque minuti” ha spiegato Catherine Noakes, professoressa di Ingegneria Ambientale dell’Università di Leeds, aggiungendo che così bastano interazioni sociali di pochi minuti per venire esposti al contagio. Dunque, no a ‘foreste’ di barriere nei luoghi chiusi: i divisori in plastica, se usati con giudizio, possono avere una loro funzione. Altrimenti diventano dannose e da evitare, preferendo loro le accortezze minime con cui abbiamo oramai imparato a condividere da un anno e mezzo.