BOB DYLAN 80 ANNI/ 15 dischi, dal peggiore al migliore: un gioco impossibile

- Paolo Vites

Racchiudere 15 dischi dei 39 in studio che Bob Dylan ha pubblicato è solo un piccolo tributo senza pretese all'opera del più grande autore di canzoni del Novecento e del Terzo Millennio

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Un gioco, niente di più. Per non fare gli enciclopedisti, i nozionisti, quelli che sanno tutto. Perché a Bob Dylan queste cose, celebrazioni e tributi, non sono mai piaciuti. Anche una sfida, scegliere solo 15 dischi tra i 39 in studio che ha pubblicato, esclusi i live e quelli della preziossima serie di inediti Bootleg Series. Ecco allora una selezione molto limitata, anche perché Bob Dylan, anche nei suoi lavori peggiori è sempre riuscito a infilare almeno una perla (come Brownsville Girl nel caso di Knocked Out Load). Viceversa, in album comunque eccellenti, ha avuto quasi sempre il vizio di lasciare fuori i brani migliori che ne avrebbero fatto degli autentici capolavori, brani fortunatamente recuperati nella già citata serie. Dei quindici dischi qui presentati, ci dispiace essenzialmente di aver dovuto lasciar fuori album di alta qualità come il suo ultimo fino a oggi, Rough And Rowdy Ways, ma anche John Wesley Harding e Street Legal, i due dischi del ritorno alla solitudine acustica, Good As I Been to You e World Gone Wrong, ma anche almeno uno della “triplette dal Great American Songbook. Tra quelli peggio riusciti, Under The Red Sky e Shot of Love. Alla fine si capirà, speriamo, che Bob Dylan ha prodotto una mole di lavoro che non ha paragoni nella storia della canzone americana del Novecento ma anche del Terzo Millennio e che sembra lungi dall’essersi esaurita.

15. Down In The Groove (Columbia, 1987)

A leggere la lista dei musicisti coinvolti, senza averlo ascoltato prima, uno si sarebbe aspettato una “bomba” di disco: Eric Clapton, Sly Dunbar, Nathan East, Mitchell Froom, Jerry Garcia, Randy Jackson, Steve Jones, Steve Jordan, Danny Kortchmar, Larry Klein, Mark Knopfler, Jerry Garcia, Paul Simonon, Ronnie Wood… All’ascolto invece, come scrisse Rolling Stone nel 2007, si rivelò “il peggior disco di Bob Dylan” aggiungendo che “i fan  discuteranno per sempre sul momento preciso in cui la carriera di Dylan ha toccato il fondo, ma la maggior parte ha fissato quel momento nel periodo in cui Down in the Groove è atterrato con un tonfo nei negozi di dischi nel maggio 1988”.  Si scoprirà poi trattarsi di materiale registrato qua e là nel corso di sei anni, dallo scarto di Infidels (1983) Death is not the end (peraltro l’unico pezzo accettabile insieme a Silvio), alla colonna sonora dell’insulso filmetto di due anni prima, Hearts of fire, e qualche scialbo e annoiato tradizionale. Non un disco pubblicato per esigenze di contratto, che Dylan questo problema non lo ha mai avuto data la libertà assoluta che la Columbia gli ha sempre concesso, ma causa la confusione e la mancanza di ispirazione comune peraltro a quasi tutti quelli della sua generazione negli anni 80.

14. Self Portrait (Columbia, 1970)

Quando il giornalismo musicale era libero e indipendente, non subiva cioè le imposizioni delle case discografiche né aveva paura di criticare i mostri sacri della musica, succedeva ad esempio che Greil Marcus, caporedattore di Rolling Stone, aprisse la recensione di Self Portrait con le memorabili parole: “Cos’è ‘sta merda?” (nel corso di una intervista Dylan avrebbe replicato con “Greil Marcus è pieno di merda”). Il problema infatti è che il secondo doppio lp di Bob Dylan dopo i fasti di Blonde On Blonde, non fu un deliberato tentativo di confondere i suoi fan, o peggio di allontanarsi da quella contro cultura che lo stesso Dylan aveva contribuito a creare, come in tanti hanno sostenuto: il problema è che Dylan era convinto di quello che aveva registrato. In quel periodo infatti il cantautore, dopo il tentativo ben riuscito di Nashville Skyline, un disco di delizioso country pop, aveva messo le tende stabilmente a Nashville e voleva esplorare a fondo quel mondo. Peccato che a fianco di alcune buone incisioni, ci avesse affiancato porcate memorabili come una invereconda versione di The Boxer di Simon & Garfunkel, uno strumentale insulso come Woogie Boogie, l’orribile nenia di Wigwam senza neanche un testo e un pezzo manco cantato da lui, l’iniziale All the tired horses. Ci pensò poi il produttore Bob Johnston a peggiorare tutto aggiungendo una massiccia dose zuccherosa di orchestrazione. Solo quarant’anni dopo, con l’uscita di un episodio della Bootleg Series contenente pezzi registrati durante queste sedute, ma inspiegabilmente esclusi, si potrà trovare traccia di un disco molto, ma molto migliore.

13. Planet Waves (Asylum, 1974)

Registrato in soli tre giorni con canzoni quasi allo stato di demo, è però l’unico disco ufficiale in studio di Dylan e The Band, gli ex Hawks che lo accompagnarono nel leggendario tour del 65-66 e nelle altrettanto leggendarie registrazioni dei Basement Tapes. Robbie Robertson e soci girano a mille, dando vigore, profondità e bellezza a canzoni senz’altro minori del repertorio del cantante americano, ma anche alcune gemme come la pregnante Goin’ Goin’ Gone, il funky di Tough Mama, l’addio agli anni 60 di Dirge e poi “quella” Forever Young.

12. Infidels (Columbia, 1983)

Come già in passato, ma sempre di più in futuro, Dylan lascia fuori dal disco che segna il ritorno alla “laicità” dopo la trilogia cristiana i brani migliori facendo infuriare il produttore Mark Knopfler. Con Blind Willie McTell ad esempio al posto del finto rock plastificato di Union Sundown, parleremmo oggi di assoluto capolavoro. Impreziosito dalla chitarra del leader dei Dire Straits (ma anche dell’ex Rolling Stones Mick Taylor) una raccolta comunque brillante a cominciare dall’enigmatica e esoterica Jokerman che pesca dai ritmi e dagli idoli caraibici fino all’inquietante e biblica I and I.

11. Tempest (Columbia, 2012)

Dopo un paio di dischi alquanto ripetitivi e soprattutto con un artista in scarsa forma, Dylan come sempre getta con nonchalance uno dei suoi assi. Un disco che attinge profondamente dalle murder ballad della tradizione folk, cantate splendidamente, oscure e fascinose, un paio di rock da urlo, uno spoken word di rara intensità (Long and wasted years) ma soprattutto un’ode epica di ben 13 minuti dall’incedere irish, che riprende e riscrive il film di James Cameron, Titanic, con la title track.

10. “Love and Theft” (Columbia, 2001)

Uscito il giorno degli attentati alle Torri Gemelle, il disco proclama ufficialmente quello che è sempre stato l’agire del musicista, “amare (brani altrui) e rubare (farli propri)”. Il disco, come diventerà consueto per tutte le uscite successive fino a oggi, pesca nel repertorio pre-rock’n’roll: folk, blues, swing, rockabilly. In molti brani è evidente l’ispirazione a canzoni degli anni 40 e 50, ma sono i testi a far gridare al plagio, presi qua e là dallo scrittore giapponese Junichi Saga . Dylan non si scompone, “è la tradizione folk” dice, e regala una perla assoluta, scartata dalle session di Time Out of Mind, la bellissima Mississippi.

9. Desire (Columbia, 1976)

Tra misticismo ed esoterismo, tra fanciulle zingare e boss mafiosi, tra avventure western e implorazioni alla moglie Sara di perdonarlo e la potente accusa di razzismo al sistema giudiziario americano (Hurricane), Desire si snoda come un romanzo di Steinbeck, una visione di Kerouac, uno dei suoi dischi più intriganti e fascinosi di sempre. Merito in buona parte della violinista Scarlet Rivera che inventa per Dylan un suono del tutto nuovo, ma anche di una energia e di una rabbia come Dylan aveva raramente espresso.

8. Time out of mind (Columbia, 1997)

Dopo ben sette anni senza una sola canzone inedita, Bob Dylan fa il consueto “ritorno” con un disco eccelso, prodotto da Daniel Lanois (che forse esagera con le sue “stratificazioni” sonore: i due faranno quasi a pugni almeno due volte durante le registrazioni) che gli farà vincere ben tre premi Grammy. Canzoni dove il tema della morte e dell’invecchiare dominano in lungo e in largo, un brano della durata di undici minuti (Highlands) che è una rivisitazione del blues in chiave postmoderna, e un lamento funebre da brividi, Not dark yet. Purtroppo anche questa volta restano fuori i brani migliori: Mississippi verrà recuperata nel disco successivo, ma non Red river shore, una delle cose più belle mai composte dal cantautore, per la quale bisognerà aspettare quasi dieci anni, grazie alla solita benedetta Bootleg series.

7. Oh Mercy (Columbia, 1989)

Dylan fa in tempo a chiudere un decennio disastroso con uno dei suoi tipici “colpi di coda”. Per farlo si sposta a New Orleans, città misteriosa popolata di fantasmi a cui dà voce in canzoni dal fascino assoluto, ben coadiuvato da Daniel Lanois che non esagera come nel disco successivo. Man in the long black coat evoca gli spiriti del bayou, Ring them bells è un gospel bianco solo voce e pianoforte, Most of the time richiama i riff chitarristici cari agli U2 ed è una delle confessioni più intime da lui mai rilasciate. Peccato che, anche questa volta, resti fuori un capolavoro, Series of dreams.

6. Slow Train Coming (Columbia, 1979)

L’ebreo Bob Dylan, la voce della generazione “contro” che diventa cristiano? Impossibile da accettare per ogni buon liberal, proprio come la svolta elettrica degli anni 60. Bob Dylan non se ne cura e anni dopo dirà che “chi non conosce la musica gospel non capisce di musica”. In realtà, con la produzione dei veterani della black music Barry Beckett e Jerry Wexler, il disco è una torrida cavalcata R&B dai suoni taglienti e esaltanti. Coadiuvato da metà Dire Straits, il gruppo emergente più di successo dell’epoca, e cioè Mark Knopfler alla chitarra e Pick Whiters alla batteria, una sezione fiati imponente e un coro femminile celestialmente gospel, Dylan appare come l’ultimo profeta prima dell’Armageddon che lancia strali e ammonisce tutti i peccatori a convertirsi.

5. Bringing It All Back Home (Columbia, 1965)

Il disco della svolta elettrica, il primo di una trilogia che rivoluziona la concezione della canzone degli anni 60 e di quella che verrà. Ogni frase, ogni parola diventano slogan della nascente contro cultura, di cui Dylan coglie e anticipa lo spirito. Se It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding) è la denuncia amara e nichilista di un mondo in mano al capitalismo devastante e omologante, Mr. Tambourine Man è l’ode beat che paga tributo a Jack Kerouac e alla marijuana. Ma attento ragazzo: “Non hai bisogno del meteorologo per sapere da che parte tira il vento (…) non seguire i leader, stai attento ai parchimetri (…) vent’anni di scuola e ti buttano nel turno di giorno”.

4. The Freewheelin’ Bob Dylan (Columbia, 1963)

Il disco del perfetto cantautore chitarra acustica, voce e armonica, che rimarrà come pietra miliare di riferimento per chiunque nei decenni successivi si cimenterà nella professione. Sebbene quasi tutte le melodie siano riadattamenti di antichi brani della trazione folk anglo-americana, Dylan li fa totalmente suoi e soprattutto scrive testi come nessuno prima. Attacca i fabbricanti di armi sperando di vederli morti, avverte dell’imminente fall out atomico, dà voce agli studenti afroamericani discriminati, e soprattutto compone senza saperlo l’inno ufficiale del Movimento per i diritti civili (e per ogni causa pacifista del futuro), Blowin’ in the wind.

3. Highway 61 Revisited (Columbia, 1965)

Un disco che contiene quella che è stata definita la canzone più importante della storia del rock meriterebbe il primo posto, eppure Dylan sa fare anche di meglio. Se Like a rolling stone, con il suo riff immortale, è la canzone definitiva degli anni 60, il resto è solo appena da meno. Qua ci sono Rimbaud e Baudelaire che imbracciano una chitarra elettrica, attraversano gli States da nord a sud, suonano un blues psicotico e avveniristico per poi rifugiarsi nel vicolo della desolazione, dove l’umanità intera confessa i suoi peccati senza possibilità di riscatto alcuno. C’è più “protesta” qui che nei suoi primi dischi.

2. Blood on the Tracks (Columbia, 1975)

Esistono due versioni, una registrata praticamente in solitudine a New York e una seconda full band a Minneapolis quando il disco era già pronto a uscire. Comunque sia, rimane un’opera immensa, una ferita profonda e sanguinante che definisce il fallimento dei rapporti affettivi, in relazioni tormentate dove nessuno vince e nessuno perde, nel tradimento e nel rimpianto, nella rabbia e nella redenzione. Amaro e disincantato come non mai, con Idiot Wind (meglio la versione newyorchese) Dylan insulta, bestemmia e sanguina: se sia a causa della moglie o dell’America che ha tradito la sua promessa, è ancora da capire. Con un colpo solo, Bob Dylan mette in riga tutta la generazione dei cantautori intimisti, che stava spopolando in quegli anni, da James Taylor a Neil Young.

1. Blonde on Blonde (Columbia, 1966)

Il primo album doppio della storia del rock, e uno dei migliori in assoluto, viene paradossalmente registrato a Nashville con musicisti dell’ambiente country. Il risultato è così strabiliante che farà dire ai Beatles: “Dylan indica la strada”. Qua dentro c’è tutto: blues, rock, ballate, psichedelia e anche un brano che occupa una intera facciata, dedicato alla moglie Sara. “Non mi sono mai avvicinato così tanto al suono che immaginavo nella mia mente… quel suono sottile, mercuriale selvaggio” dirà. Nella foto di copertina il volto di Dylan è volutamente sfocato, mentre la musica all’interno è perfettamente a fuoco.





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