Oltre Dylan: ma chi erano i folksinger degli anni ’60 USA? Ecco le loro storie. Con una guida all’ascolto. Prima puntata

Il successo di A complete unknown, anche grazie al richiamo per i più giovani per l’interpretazione di Timothée Chalamet  (furba e vincente operazione di marketing) ha fatto riscoprire (o scoprire tout-court) un periodo magmatico della musica nord americana di quegli anni ’60 così sospesi tra la nuova società e i nuovi ritmi (il rock’n’roll, prima di tutto) nati a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale e l’affermarsi di una inedita guerra, quella “fredda”, che però tra USA e Unione Sovietica tanto fredda non era in Vietnam (dove coinvolta era anche la Cina maoista) e con l’incubo di un’ecatombe nucleare spinta della crisi dei missili a Cuba.



Mentre Elvis (the Pelvis) Presley scandalizzava i “matusa” benpensanti, galvanizzando le schiere dei teenagers con i suoi ammiccamenti sessuali e i Beatles dalla Swingin’ London sbarcavano in terra statunitense tra folle adoranti, inaugurando la British Invasion alla quale si accodarono i Rolling Stones, facendo riscoprire il blues a chi il blues l’aveva inventato (e dimenticato), nella metropoli newyorkese si affermava il Greenwich Village, un luogo dove i giovani bohémien, gli intellettuali della Beat Generation (Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti) nel pieno della critica al potere borghese costituito, in perfetta sintonia con la gioventù universitaria, si davano appuntamento per ascoltare i menestrelli folk intenti non solo a recuperare il catalogo della musica popular tradizionale dell’America profonda, ma erano i portabandiera delle istanze degli “ultimi” cantando dei lavoratori sfruttati, degli emarginati e sconfitti dal “progresso” tecnologico con la vita segnata dalla violenza rabbiosa, contestando il capitalismo, guerrafondaio e profondamente razzista.



Una specie di “missione” artistica immersa nell’ideologia comunista, propagandatori di un ideale non esente da strabismo, a favore del collettivismo sovietico, benché filtrato dall’orgoglio di essere comunque figli americani, richiamando i valori antichi delle comunità agricole e della workin’ class, senza dimenticare quelli del cristianesimo dei Padri Pellegrini, imbevuto dal protestantesimo limitato all’Antico Testamento e ben diverso dalla cultura del cattolicesimo apostolico romano.

Su quest’ultimo tema bisognerebbe aprire un’ampia parentesi: nel film, per ragioni evidenti di narrazione, non ci si sofferma come Dylan (anche per la sua cultura d’origine famigliare ebraica) costruisse i testi delle sue canzoni che oggettivamente erano imbevuti di citazioni bibliche. Di questo importante particolare del fenomeno Dylan si sono scritti montagne di saggi e anche su queste pagine.



Questo movimento musicale che cresceva al Greenwich Village  aveva un precursore dal nome preciso: Woody Guthrie. Guthrie è l’uomo gravemente malato dal morbo di Huntington, che un Dylan ancora sconosciuto va a trovare in ospedale, davanti al quale svela la sua arte e al quale dopo qualche anno ritorna per un commosso saluto, (come il film di Mangold immagina), quasi ad annunciargli la fine di un’epoca e l’inizio di un nuovo capitolo musicale che lo vedrà assoluto protagonista: una specie di passaggio di testimone in una ipotetica corsa a squadre.

Nato nel 1912, Guthrie sbarca a New York alla fine degli anni ’30 con solo una chitarra a tracolla e un’armonica a bocca. Una vita famigliare alle spalle piuttosto complicata: gravi problemi economici, un padre violento e diversi lutti prematuri. Inizia a scrivere canzoni dove racconta “quello che vede”.

Lui stesso è vittima della censura di Stato (primo tra diversi in seguito) quella del capo FBI dell’epoca  J. Edgar Hover e successivamente del “maccartismo”: è accusato di presunte attività anti-americane, sospettato di appartenenza al Partito Comunista. Il suo songbook è composto da ballate in cui il folk si interseca con il blues afroamericano, quella forma particolare del “talkin’blues” (Il primo Dylan se ne approprierà a piene mani). Nel 1995 Bruce Springsteen renderà omaggio alle atmosfere musicali e ai temi sociali delle canzoni di Woody Guthrie pubblicando l’album : “The ghost of Tom Joad”.

Mentre già nel 1959 gli verrà diagnosticata la grave malattia progressiva ai nervi, Guthrie incontra un altro importante personaggio di questo “romanzo musicale”, che nel film di Mangold è ben presente, una specie di co-protagonista: si tratta di Pete Seeger.

Ma prima di avventurarci nella biografia di Seeger , densa di avvenimenti, vogliamo accennare ad un altro precursore dell’arte dylaniana. Un personaggio un po’ “spiantato”, che pur facendo parte della iniziale sparuta schiera di folksinger alla ribalta dalla fine degli anni ’50 non ha mai avuto il piacere di avere riconosciuta la sua carriera, se non da una ristretta schiera di esperti del genere.

Neanche dopo la sua morte quando nel 2013 i fratelli Joel & Ethan Coen gli hanno dedicato un film, immaginandolo nella figura inventata di un certo LLewyn Davis. Dal titolo Inside Llewyn Davis, il film, che non ha avuto un successo clamoroso, racconta in maniera realista la vita quotidiana di chi in quegli anni lasciava casa sua per inseguire una sua stella creativa, trovando solo grandi difficoltà nell’uniformarsi al businnes discografico.

Dave Van Ronk, ecco il nome dell’artista rimasto semisconosciuto al grande pubblico è stato prima di Dylan un gran divulgatore di musica popolare, pietra fondamentale seppur rimasto malauguratamente nell’ombra. Perfidamente i fratelli Coen nel film lo fanno proprio assistere ad uno dei primi concerti di Bob Dylan, rassegnandolo ad un ruolo di comprimario davanti alla furia trascinante del ragazzino del Minnesota.

Chitarrista e banjoista, Dave Van Ronk (nasce nel 1936 a Brooklyn, e lì morirà nel 2002) è un esponente di quella corrente musicale chiamata Traditional jazz un crocevia tra il jazz pre-swing e la musica bianca popolare e che incrociando il musicista Chris Barber darà vita allo skiffle, un ritmo a cui i primi Beatles saranno debitori. Nonostante il ciclone Dylan, Van Ronk continuerà la carriera seppur quasi nel nascondimento ma mantenendo contatti con il mondo dei folksinger, dicendo di se stesso: “Non mi considero un folksinger  in tutto, non lo penso. Voglio combinare il modo di suonare la chitarra con la tecnica folk del fingerpicking con il vecchio repertorio dei brani jazz e lo vorrei fare per molti anni. Mi considero un viaggiatore che progredisce e documenta”.

La figura di Dave Van Ronk non appare in A complete unknown anche se la sceneggiatura su cui si basa è tratta da “Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica” scritto nel 2015 da Elijah Wald, già tra i più validi chitarristi folk e che proprio a Van Ronk si è ispirato nell’uso tecnico dello strumento.

Sospettando di aver abusato della vostra pazienza di lettori e coscienti di aver molto ancora da raccontare di quegli anni così magmatici e interessanti, fondamentali per chi vuole approfondire le storie che lambiscono il protagonista di A complete unknown  vi rimandiamo alla prossima puntata di questo racconto (sperando non confuso) e per finire vi proponiamo una piccola guida per addentrarvi meglio nella musica (e nella società) di quell’America inquieta dei ’60.

Libri: Elijah Wald “Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica”  Vallardi editore, 2022.

Film: Joel & Ethan Coen: “Inside Llewyn Davis” con Oscar Isaac, 2013.

Cd: “Original Folk: Best of Woody Guthrie” 2cd;

Dave Van Ronk “Down in Washington Square: The Smithsosian Folkways Collection”  2cd;

“Dave Van Ronk Collection  1958 – 62”  2cd;

“Inside Llewyn Davis” Original Soundtrack;

“Another day, another time: Celebrating the music ‘Inside Llewyn Davis” live 2cd.

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