Il biopic – abbreviazione di biographic motion picture – è un genere cinematografico che negli ultimi anni ha conosciuto un’enorme popolarità, pur affondando le proprie radici in tempi lontani. Basti ricordare capolavori immortali come Gandhi o Elizabeth, dedicato alla regina Elisabetta I. Ciò che distingue l’epoca attuale è l’attenzione sempre più marcata verso le leggende della musica rock. Ma perché questa scelta? La risposta è semplice e amara: viviamo in un’era priva di eroi, di punti di riferimento saldi. Le icone del rock del passato, spesso ancora in vita, si stagliano come fari luminosi in un oceano di incertezze. Eredi? Non ce ne sono.
I primi biopic di questo tipo hanno aperto la strada già da anni: Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line (2005) su Johnny Cash, diretto da James Mangold, lo stesso regista che ha affrontato Bob Dylan; oppure Great Balls of Fire! (1989) su Jerry Lee Lewis, The Doors (1991) di Oliver Stone o Ray (2004) su Ray Charles. Con il passare degli anni, il genere ha continuato a guadagnare terreno, regalandoci successi recenti come Bohemian Rhapsody su Freddie Mercury, Rocketman su Elton John, Elvis su Elvis Presley e Respect su Aretha Franklin. Ora, il testimone passa a Bob Dylan, mentre già è in lavorazione un progetto dedicato a Bruce Springsteen.
Raccontare in due ore vite tanto complesse è una sfida titanica, e inevitabilmente alcuni dettagli vanno sacrificati. Tuttavia, Mangold si dimostra magistrale nel superare questa trappola, concentrandosi sui primi quattro anni della carriera del cantautore americano senza perdere nulla dell’essenza del personaggio. Per chi cerca opere più ambiziose, resta insuperabile I’m Not There (2007) di Todd Haynes, che esplorava sette fasi della vita di Dylan, ciascuna interpretata da un attore diverso. Ma c’è una domanda inevitabile: quanti giovani, oggi, conoscono davvero Bob Dylan? E, soprattutto, quanti di loro andranno a vedere questo film? Se Freddie Mercury è ancora una figura universalmente popolare, Dylan appartiene a una dimensione diversa, più intima e di culto. Si ama pensare che i biopic possano avvicinare i giovani a queste figure storiche, così come si diceva che il successo dei Måneskin avrebbe spinto i ragazzi a imbracciare una chitarra e formare band rock. Non è accaduto, e le classifiche odierne continuano a essere dominate da artisti come Geolier, Tony Effe o Mahmood.
Nonostante ciò, il film è un gioiello. L’attenzione ai dettagli storici e scenografici è stupefacente. L’appartamento di Dylan in West 4th Street, dove visse con Suze Rotolo (ribattezzata Sylvie Russo per volere dello stesso Dylan, che ha voluto proteggere la memoria di una persona tanto amata), è ricostruito fedelmente grazie a fotografie d’epoca. E il Greenwich Village dei primi anni ’60 rivive con una precisione che lascia ammutoliti. Questi dettagli ci fanno sentire come testimoni invisibili, immersi in un’epoca irripetibile, nel cuore pulsante di una giovane America in piena trasformazione. Anche la musica è trattata con riverenza: quando Dylan registra Highway 61 Revisited, ogni dettaglio strumentale è fedele agli originali (splendido vedere Al Kooper che non sa neanche come si accende una tastiera Hammond e poi si inventa il riff immortale di Like a Rolling Stone).
Timothée Chalamet, nel ruolo di Dylan, ha approfittato della pausa pandemica per prepararsi con dedizione maniacale, imparando a suonare la chitarra, a cantare e a immergersi nella profondità del personaggio. Certo, qualche licenza storica è presente – come l’immaginaria presenza di Johnny Cash al Newport Folk Festival del 1965 o l’insulto “Giuda!” anticipato di un anno -, ma queste discrepanze non intaccano l’impatto complessivo del film. Ciò che pesa di più sono scelte come l’inserimento del duetto mai esistito tra Dylan e Joan Baez in Girl from the North Country. Considerando le tante canzoni che i due hanno interpretato insieme, perché non sceglierne una reale?
Mangold sceglie di dare ampio spazio alla travagliata relazione tra Dylan e Suze Rotolo, che ispirò capolavori immortali come tante canzoni di The Freewheelin’ Bob Dylan e di The Times They Are a-Changin’. Joan Baez appare e scompare come un’ombra, dipinta con sensibilità, anche lei vittima di un uomo la cui grandezza artistica oscurava entrambe le donne. Ed Norton, nel ruolo di Pete Seeger, offre un’interpretazione memorabile, incarnando la figura paterna e il mentore affettuoso che vede in Dylan la voce di una generazione in lotta per i diritti civili e che rimane legato a lui anche dopo lo “scandalo” di Newport.
E poi c’è lui, Dylan. Mangold evita di appesantirlo, mantenendo l’equilibrio tra mito e uomo. Geniale l’inserimento di frasi autentiche del cantautore, come quella che ne cattura l’essenza: “Ognuno vorrebbe che io fossi diverso, ma io voglio essere come? Come qualunque cosa non vogliano che io sia”. Che è tutt’oggi la cifra umana e artistica di quest’uomo.
In definitiva, il film esplora con maestria le forze che plasmano e deformano la creatività, evitando i cliché del biopic tradizionale per raccontare un capitolo formativo della musica e della storia. Mangold intreccia la musica di Dylan nel tessuto della narrazione, rendendola parte integrante della trama, piuttosto che semplice colonna sonora. In una scena, ad esempio, mentre dalle televisioni rimbombano le notizie sulla crisi dei missili a Cuba, Dylan appare in un club mentre canta Masters of war. Mangold intreccia i brani di Dylan nel tessuto della narrazione invece di usarli come colonna sonora. C’è tanta musica nel film, tante canzoni, ed è una bella cosa.
Il film finisce come era cominciato. Bob Dylan è in ospedale da Woody Guthrie e sta per ridargli l’armonica che lui gli aveva regalato. Oramai è una rock star, ma poi ci ripensa, se la tiene e se ne va per la sua strada. Che rimarrà per sempre legata alle sue radici di folksinger, anche oggi.
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