“Contro la tua volontà sei stato creato, contro la tua volontà sei nato, contro la tua volontà vivi e contro la tua volontà muori”. Recita così un versetto di “Pirkey Avot”, traducibile con “I Capitoli dei Padri” o “I principi fondamentali”, una raccolta di insegnamenti e massime formulate dai rabbini circa duecento anni prima della nascita di Cristo, un testo non solo fondamentale ma tutt’oggi obbligatorio per ogni ebreo ortodosso. Parole che echeggiano un verso del capolavoro di Bob Dylan, il brano Not dark yet: “Sono nato qui e morirò qui contro la mia volontà“.
Sono parole durissime e profondamente intrise di amarezza per la condizione umana, qualcosa che sentito impossibile da vivere con libertà, ma come oppressione. Rifuggendo qui alcuna considerazione sulle problematiche dell’ebraismo e la visione escatologica profondamente pessimistica che questa religione sembra possedere, è certo che Bob Dylan ne sia profondamente coinvolto, da ebreo come è. Sono parole che aprono al mistero totale e magnifico del disco Time out of mind e che la pubblicazione del nuovo capitolo di Bootleg series non solo non contribuisce a dipanare, ma anzi attrae ancora di più in una visionarietà che ha ben pochi paragoni nella storia del rock.
La storia del disco è arcinota. Nel 1996 il cantautore americano si trova nel pieno del periodo di “digiuno” artistico e compositivo più lungo della sua carriera. L’ultimo disco di brani originali, Under a red sky, risale al 1990. In mezzo due album di cover di vecchi brani blues e folk. Nel 1991, in una intervista, aveva detto: “Se al mondo nessuno componesse più nuove canzoni, non sarebbe un danno, ce ne sono già abbastanza da ascoltare”. In quegli anni di astinenza, si era immerso profondamente nel suo Never ending tour e tanto bastava. Ma evidentemente il digiuno non lo aveva pacificato. La leggenda vuole che durante l’inverno particolarmente intenso del 1996, nella sua fattoria in Minnesota, il cantautore si metta a scrivere dei testi. Con quei fogli si presenta da Daniel Lanois, con cui aveva già lavorato per il capolavoro Oh Mercy del 1989. Non ha ancora musicato alcuno dei componimenti, un modo certamente inusuale per chiedere a un produttore se pensa valga la pena di lavorare a un disco. A Lanois suggerisce di ascoltare canzoni di Charley Patton, Little Walter, Little Willie John, Arthur Alexander, Link Wray e altri, per capire davvero quale suono e atmosfera stesse cercando. Si tratta di un’intera serie di componimenti apparentemente incentrati sull’amore, il tradimento e la perdita e, forse altrettanto significativamente, la vecchiaia e la mortalità. E quando la morte di così tante figure significative ha colpito l’industria musicale negli ultimi tempi, questo sembra un momento opportuno per rivisitare e rivalutare questo album di Dylan dato che è stato pubblicato in un momento in cui ebbe il suo incontro con la morte, problemi al cuore dopo averlo finito di registrare. Ma c’è di più di questo: c’è un senso di rabbia, come dicevamo all’inizio, di disperazione, nei confronti della vita stessa, di oppressione e di impossibilità di sfuggire a un Grande Burattinaio che decide invece il tuo destino. In Not dark yet, non solo il protagonista è bloccato da un fardello più grande di quello che può sopportare, ma è così imprigionato nei suoi problemi che nemmeno la morte fornirà rifugio. La canzone si conclude con il narratore rassegnato al suo destino depresso e solitario: “Non si sente nemmeno il mormorio di una preghiera, non è ancora buio ma sta arrivando”. In una prima stesura di Dirt road blues, il tono è ancora più disperato: “Sotto di me desolazione in ogni direzione”. L’impermanenza della vita, la realizzazione del corso stesso della vita, il tema del Memento Mori, che c’è sempre stato nelle canzoni di Dylan, in un modo o nell’altro, è fortemente presente, ma ora forse con un sapore nuovo e più insistente.
Quando il disco a settembre 1997 viene pubblicato, lascia tutti attoniti per la disperazione suicida che emerge da Love Sick, Not Dark Yet, Standing in the Doorway, ‘Till I Fell I Fell in Love with You, la rabbia repressa in Can’t Wait, la depressione che fuoriesce ogni minuto da Highlands, il fatalismo di Tryin’ to Get to Heaven. Nonostante questo è abbastanza per far dire a molti che si tratti del miglior disco di Dylan dai tempi di Blood on the tracks.
Lanois aveva comunque capito che cera la possibilità di tirare fuori un grande disco. Invita Bob Dylan nei suoi nuovi studi di registrazione, un vecchio teatro ribattezzato semplicemente Teatro, a nord di Los Angeles, a poca distanza da casa di Dylan. Sembrerebbe l’ambiente ideale per lavorare, ma dopo poco tempo Dylan chiede che si trasferiscano ai più mondani Criteria Studios, in Florida.
Viene coinvolto uno stuolo enorme di musicisti a cui incredibilmente viene chiesto di suonare contemporaneamente. Tony Garnier al basso, il polistrumentista Bucky Baxter a tutti i tipi di corde e il batterista David Kemper della tour band di Dylan all’epoca, Augie Myers all’organo e alla fisarmonica, ben noto per il suo lavoro con Doug Sahm, il grande Jim Dickinson di Memphis alle tastiere e la virtuosa Cindy Cashdollar alla pedal steel. Bob Britt, che suona attualmente la chitarra nella band di Dylan dal 2019, partecipa alle sedute così come il chitarrista blues Duke Robillard, anch’egli per un breve periodo nella band di Dylan nel 2013. Viene coinvolto il batterista Jim Keltner che aveva suonato con Dylan dal 1979 al 1981 e anche dopo. E ancora: Tony Mangurian alla batteria e alle percussioni, Winston Watson, David Kemper e Brian Blade suonano tutti la batteria durante le sessioni ai Criteria Studios. Anche il produttore stesso, Daniel Lanois, a volte suona la chitarra. Lo stesso Bob Dylan suona chitarra, pianoforte e armonica.
Un Dylan in evidente stato di grazia produce musica di altissimo livello. Le sedute di registrazioni però non sono facili, Dylan e Lanois sono più volte ai ferri corti, chitarre volano da una parte all’altra dello studio fracassandosi al suolo. Probabilmente per questo Time out of mind è l’ultimo disco prodotto da un produttore esterno.
Secondo Dylan, Lanois non ha mai veramente capito la qualità di Mississippi come canzone, non importa quante versioni e arrangiamenti siano stati provati. Dylan finirà per rimandarla a Love And Theft, il primo album con l’alter ego di Dylan, Jack Frost
A Lanois il cantautore lascia il compito di mixare il prodotto finale. Come mi dirà in una intervista Bucky Baxter, “decise lui quali strumenti portare in primo piano e quali eliminare, ad esempio la mia pedal steel”. Non solo: Lanois filtra la voce di Dylan attraverso un apposito mixer collegato al microfono. La musica che ne esce ha un sound stratificato, fangoso, oscuro e minaccioso che a Dylan non sarebbe mai piaciuto.
E’ così che questo cofanetto si apre con la sorpresa più grande. Un po’ come fece Paul McCartney nel 2003 rimuovendo gli arrangiamenti di Phil Spector da Let it be, Dylan ha autorizzato l’ingegnere del suono Michael Brauer che ha già lavorato a molti Bootleg series, a produrre una sorta di Time Out of Mind – Naked Edition che ci porta dietro le quinte e i filtri di Lanois, rimuovendo il riverbero e tutte le altre aggiunte sonore e atmosferiche. Quello che abbiamo adesso è lo stesso disco, ma diverso. L’emozione è di grande impatto: la voce di Dylan è più autorevole, gli strumenti sono ben definiti e spumeggianti, il suono è quello di un gruppo di musicisti che suonano dal vivo nella stessa stanza. Come quei vecchi dischi della Sun Records a cui Dylan ha sempre pensato.
Il resto del cofanetto contiene versioni differenti dei vari brani, illuminanti come sempre per capire il processo compositivo del musicista, ma sicuramente non paragonabili a quelli già pubblicati in Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1989-2006. Stiamo parlando di quegli immensi capolavori che erano le due versioni acustiche in splendida solitudine di Mississippi e di quella grande meraviglia che è Red river shore (anche qui presente). Ci sono cose piacevoli, come una prima versione rock-blues nello stile di Highway 61 di Mississippi, una versione pianistica di Dreamin’ of you (che sarebbe rimasta fuori del disco), Dirt road blues, il punto più debole del disco originale, che invece emerge con una forza e un ritmo irresistibili.
C’è poi un cd di brani dal vivo che sembra quasi una presa in giro. Si tratta infatti per la maggior parte di registrazioni effettuate da membri del pubblico. Insomma, Dylan ha “bootlegato i bootleg”. Per fortuna ci sono comunque esecuzioni da pelle d’oca di Not dark yet o Trying to get to heaven, e ancora una lettura orgogliosa e maestosa di Mississippi, quasi sempre un punto culminante negli spettacoli in cui è stata cantata e di altri brani eseguiti durante il tour del 2000, a parere di chi scrive il migliore del Never ending tour, quando a due assi come Charlie Sexton e Larry Campbell era permesso emergere a dovere.
Il quinto cd infine contiene i pezzi di queste sedute già inclusi in Tell tale sign, dando così la possibilità di avere tutto insieme questo corpo di lavoro, ma onestamente non è stata fatta una bella cosa nei confronti degli acquirenti.
Quello che resta è un mistero aperto e un Bob Dylan probabilmente al vertice della sua capacità compositiva, capace di rispecchiare e raccontare il male di vivere dell’uomo moderno, con musiche di fascino purissimo che trovano origine nell’era pre rock’n’roll: “Hai mai sentito che il tuo cervello era imbullonato al muro/che tutte le viti erano strette e tu eri tagliato fuori da tutto”?. In un certo senso, una versione beat del “Pirkey Avot”.
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