Finalmente ecco il “Nebraska elettrico” uscire in concomitanza con il biopic dedicato a Bruce Springsteen. Piccolo viaggio nella storia di un capolavoro
Citando il famoso film di Zemeckis, qui si vuole introdurre il lettore nella genesi dell’album forse più cinematografico del catalogo discografico ultra cinquantenne di Bruce Springsteen: “Nebraska”.
Proprio quest’anno quando il Boss ha celebrato il suo eterno “ritorno al futuro” prima pubblicando alla fine di giugno il corposo box “The lost albums” con addirittura sette album inediti registrati lungo un periodo di trentacinque anni; operazione discografica che ha lasciato strascichi non del tutto positivi, vuoi per l’enormità dell’offerta musicale che ne ha condizionato il prezzo commerciale, dissanguando ogni portafoglio con media capacità di spesa, e vuoi per il generale panorama dei brani, alcuni dei quali, effettivamente dimenticabili.
E mentre la stampa specializzata ha ricordato il mezzo secolo di “Born to run”, il rocker del New Jersey torna ancora ad aprire gli archivi del suo glorioso passato, svelando all’intero mondo dei fans la versione elettrica di “Nebraska”, dopo averne più volte smentito l’esistenza di questo album, realizzato in perfetta solitudine, proprio ora, in concomitanza con l’arrivo sui grandi schermi cinematografici del biografico “Liberami dal nulla” ispirato al libro best seller di Warren Zanes che racconta i giorni della sofferta produzione del disco.
Proprio sulle pagine digitali del Sussidiario, nel 2016, Paolo Vites, uno dei giornalisti italiani che più hanno scritto sul fenomeno Springsteen, così sottolineava: “Nebraska (è) … la desolante descrizione di un uomo, Springsteen, in un momento di grande depressione mentale (…) perdenti, criminali, assassini, genitori assenti (…) non c’è redenzione o salvezza per nessuno (…) semplicemente ci si trascina da un incubo all’altro”.
Infatti, Springsteen, così confessava: “Leggevo Flannery O’Connor, le sue storie mi restituivano l’inconoscibilità di Dio e contenevano una spiritualità oscura che si accordava a ciò che sentivo in quella fase della mia vita. Se c’è un tema che percorre ‘Nebraska’ è la linea sottile che separa la stabilità da quel momento in cui il tempo si ferma e ogni cosa si dissolve. Quando tutto ciò che ti connette – il tuo lavoro, la tua famiglia, i tuoi amici, la tua fede, l’amore e la grazia del tuo cuore – ti abbandonano”. E poi, ancora: “La O’Connor conosceva il peccato originale: sapeva qual era il modo di rendere ‘carne’ il racconto”.
Ora, bisognerebbe conoscere di più di questa scrittrice statunitense che visse attraversando la parte centrale del Novecento: cattolica, romanziera dalla visione realisticamente dura della realtà, al limite del parossismo, abitata da personaggi borderline protagonisti di storie non convenzionali e dai risvolti grotteschi, in una sua corrispondenza scrisse: “I racconti dovrebbero rappresentare la vita e lo scrittore deve usare tutti gli aspetti della vita che sono necessari per creare un’opera convincente. (…) Scrivere racconti è la concreta espressione del mistero, mistero che è vissuto”. Per concludere così: “Il fatto è che io scrivo in questo modo perché sono cattolica. Se non fossi cattolica non avrei nessuna ragione di scrivere, nessuna ragione di guardare e nemmeno nessuna ragione per sentirmi inorridita o per gioire di qualsiasi cosa”.
Introducendo alla lettura di un suo romanzo della O’Connor, “Il cielo è dei violenti”, Andrea Fazioli, a sua volta scrittore e insegnante di scrittura creativa alla scuola intitolata proprio alla scrittrice americana, scrive sul numero estivo del mensile Tracce: “Così, Flannery O’Connor continua a consegnarmi un richiamo alla speranza. Il destino dei protagonisti si compie passando attraverso le ferite, il rifiuto e l’angoscia. Tuttavia non è disperazione, perché essi non si sottraggono all’esperienza, al confronto con il sudore, con la sporcizia della realtà. (…) Questi personaggi rozzi, privi di buon senso, sono anche assetati di grazia. La loro caparbietà, perfino il loro fanatismo nasconde una fragilità che è vicina alla redenzione”.
E allora, ben si capisce, come l’uomo Springsteen, educato in gioventù alla cultura cattolica, in una società dalle origini protestanti, sia stato così colpito dalle narrazioni scevre da ogni moralismo ma così capaci di sondare la profondità dell’animo umano, pur nella drammaticità dello scorrere della realtà quotidiana, anche in quella criminale.
“Nebraska” è questa cosa qui. Afferma Springsteen: “Mi chiedo, questa è una buona canzone? C’è un essere umano in questa canzone? Se la canto si sente la sua voce, la voce di un uomo in carne ed ossa? E poi che storia è, che cosa si racconta? È qualcosa per cui vale la pena di chiedere tempo al prossimo?”. E poi, in un’altra occasione: “Questo album ha quella dote cinematica che vorrei possedessero sempre i miei lavori, quando entri in una canzone e senti il suo pulsare. Con le sue malinconie, con le sue debolezze”.
Scrive Ermanno Labianca, giornalista musicale e autore televisivo, nel suo libro di commento ai testi “Talk about a dream” (ed.Arcana): “Springsteen ha inconsapevolmente scritto e messo su nastro una irripetibile sequenza – irripetibile l’atipicità dei suoni, irripetibile l’approccio così domestico – di storie noir che hanno come protagonisti le periferie del New Jersey e tante anime randagie in cerca di affetto, riscatto, lavoro, opportunità di vita. Disco di immensa e disadorna bellezza tra Woody Guthrie e allucinate visioni techno-rock”.
Luca Miele, altro giornalista appassionato al rock del Boss, fa un altro passo nel raccontare “Nebraska”, nel suo libro “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” edito da Claudiana, toccando due temi, che ricorrono nella “poetica” del rocker del New Jersey: ol tormentato rapporto con la figura paterna e la casa domestica luogo di sentimenti contrastanti.
“Ma la casa di cui canta Springsteen, una casa deserta che pure brilla ‘come un faro nella notte’, continua a chiamarlo e richiamarlo, che non smette di attirarlo come in “Mansion on the hill”, da chi è abitata? Di quale assenza sta cantando Springsteen con voce piena e dolente nella cupa “My father’s house? (…)
La casa del padre è vuota. Nessuna ricongiunzione è mai possibile: la casa del padre che si erge nella notte ma rimane ‘fredda e solitaria’. (…) continua ad assediarlo e chiamarlo nella notte: la casa sorge alla fine della ‘buia autostrada dove i peccati giacciono inespiati’ .È l’impossibilità di redimersi dai propri peccati a negare la riconciliazione con il padre”. Conclude Miele: “Ecco il cuore teologico dell’album ‘Nebraska’: un uomo sogna di tornare bambino e di correre verso la casa del padre (…) un paesaggio cupo e onirico che sembra sbucare dalle pagine di Flannery O’Connor. (…) Richiama, quindi, una dimora che non è solo quella terrena. (…) Quale significato costudisce la ‘mansion’? La casa rappresenta il posto in paradiso, la destinazione ultima, promessa ad ogni credente”.
In un’intervista rilasciata nel 2012 a Mario Leone su Tempi.it, il cronista musicale Walter Gatti dice di Springsteen: “Sicuramente a monte c’è questa grande educazione cattolica (…) Le sue canzoni parlano sicuramente di un seme profondamente religioso che tutto coinvolge, ma penso che la cosa interessante non è tanto sapere se lui sia profondamente cattolico, quanto sapere che ha una domanda che non si è spenta. E se uno ha una domanda che non si spegne, in qualsiasi momento può essere disponibile ad ascoltare la voce di una risposta che arriva”.
E siamo alla fine di questo piccolo viaggio nei sentimenti di illustri esperti sul personaggio Springsteen, sull’uomo e artista. Tanta acqua è passata da quel 1982, si può ancora guardare al Boss attraverso queste parole? In questi ultimi tempi, di fronte agli anni che passano inesorabilmente, mantenendo la carica live con la E Street Band nei tour mondiali, testimoniandone anche i lutti profondi, è come se Springsteen volesse alleggerirsi di tutta la musica che ha tenuto nei cassetti e che non ha mai pubblicato ufficialmente, arrivando a svelare la versione elettrica di “Nebraska”. Aggiungerà valore al capolavoro che conosciamo in versione splendidamente solitaria e profondamente umana o sarà una grande delusione (come già pensava lo stesso Springsteen, contraddicendo però gli amici musicisti della E Street Band che ne hanno sempre sostenuto la perfetta riuscita)?
E poi, tutto questo “svuotare cassetti” è solo un modo di vivacizzare un marketing, che sappiamo è un mercato che ha bisogno, ora più che mai, di iniezioni di capitali freschi oppure è il desiderio (attraverso l’unico modo che esiste, cioè pubblicare dischi) di raccontare interamente la propria storia artistica in tutte le scelte che hanno attraversato la propria carriera?
Sicuramente ne parleremo ancora, qui si sono voluti lanciare solo alcuni spunti di discussione. In attesa del nuovo box e del film, entrambi in uscita a ottobre. Nel segno del Boss, che Dio lo benedica. Sempre.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.