Cina e Stati Uniti competono sul fronte dell'Intelligenza artificiale seguendo due strade diverse, mentre l'Ue vorrebbe regolamentare
L’intelligenza artificiale non sfugge alle regole della competizione che caratterizza qualsiasi innovazione, peraltro una sfida che diventa ancora più serrata quando una tecnologia presenta una forza divisiva enorme (in fondo utilizzare un certo modello piuttosto che un altro implica accettare le regole “etiche” che lo governano).
In questa corsa, Stati Uniti e Cina hanno scelto traiettorie diverse, come due quattrocentisti che, pur competendo sulla stessa pista, non corrono mai sulla medesima corsia. Il risultato è che oggi assistiamo a una sfida che non è soltanto tecnologica, ma culturale e politica, in cui le linee di partenza sono state tracciate non dai processori, ma dalle mentalità.
In questo senso il lancio dei due più recenti prodotti algoritmici mostra esattamente la natura della sfida. È lo scontro di due filosofie: quella occidentale, in eterna proiezione nel tempo come spiegava Heidegger, e quella orientale, concentrata sul presente come il Buddhismo Zen insegna.
La Cina, con il recente debutto di Kimi K2, ha scelto la via dell’innovazione dell’efficienza: fare le stesse cose con meno costi e meno sforzi, sfruttando al meglio ciò che già esiste per raggiungere la leadership. Non c’è nulla di scandaloso: la storia dell’industria è piena di esempi in cui il “second mover” ha surclassato il pioniere semplicemente perfezionando processi e abbattendo costi.
Kimi K2 nasce così, non da un’epifania autarchica, ma dal lavoro di un team di ex ricercatori di Google e Meta tornati in patria. Un trapianto di know-how che conferma come la linea di demarcazione tra concorrenza e diaspora tecnologica sia sempre più sottile.
L’architettura Mixture-of-Experts, l’apertura open-source, i costi di utilizzo che ridicolizzano quelli dei concorrenti occidentali: tutto in Kimi K2 parla di ottimizzazione. Il messaggio implicito è chiaro: non serve costruire la montagna più alta, basta trovare il sentiero che la fa sembrare più bassa. Rendere accessibile una tecnologia che tutti vogliono significa scommettere proprio sul “qui e ora”.
Gli Stati Uniti, con gpt-5 di Open AI, percorrono invece la strada dell’innovazione dell’efficacia: fare le stesse cose, ma meglio di prima, e aggiungere cose nuove, anche se questo significa gonfiare la bolletta energetica e far salire i costi operativi. Qui la logica è quella della conquista per eccesso: offrire prestazioni superiori, funzioni multimodali avanzate, memoria persistente, ragionamento esteso. Non si tratta di consolidare il confine, ma di espanderlo.

Gpt-5 è un salto non solo quantitativo, ma qualitativo: integra testi, immagini, audio e codice in un’unica interfaccia, cancella la necessità di scegliere tra modelli e si propone come strumento universale, adatto a chiunque sia disposto a pagare. È la visione tipica di chi, sulle tecnologie emergenti, preferisce rischiare e punta alla gallina domani piuttosto che all’uovo oggi. Qui la velocità di innovazione è anche una dichiarazione di forza: se si pensa ai prodotti Apple si ha ben chiara la visione.
Se guardiamo al passato, l’efficienza vince nelle tecnologie mature: quando un prodotto o un’idea hanno già trovato la loro forma stabile e si sono consolidate, nel frangente chi riesce a produrli meglio e più a buon mercato conquisterà il mercato. L’efficacia, invece, tende a prevalere nell’ambito delle tecnologie emergenti: una situazione in cui il cliente cerca il servizio più completo, l’esperienza più innovativa, ma ancora di più resta affascinato dalla promessa più visionaria.
In questo senso, la sfida tra Kimi K2 e gpt-5 è anche una domanda aperta sullo stadio di maturità dell’AI generativa. Se vale la prima, la Cina ha un ovvio vantaggio; se invece è buona la seconda, gli Stati Uniti restano favoriti.
E poi c’è l’Europa. La vecchia signora che, di fronte a questa corsa, non riesce scendere in pista e finisce per restare sugli spalti a commentare la tecnica degli altri, cercando di giocare la sua partita sulle “regole del gioco”. Il Vecchio continente non ha un “carro” proprio; al massimo può scegliere a quale carro attaccare i propri buoi, sperando che il conducente li tratti bene. È un ruolo ingrato: essere tecnologicamente troppo piccoli per guidare la gara, ma troppo grandi per non subire le conseguenze a seconda di chi la vince, perché le alternative non esistono.
L’Europa parla di etica, di regolamenti, di AI “a misura d’uomo”, ma lo fa senza potere mettere sul piatto della bilancia le “sue” tecnologie che le permetterebbero di dettare degli standard.
Se Stati Uniti e Cina seguono due modelli opposti per la supremazia tecnologica, l’Europa rischia di materializzarne un terzo: quello dell’osservatore regolatore, che scrive le leggi di un gioco che non sa più giocare, perché lo ha inopinatamente abbandonato molto tempo fa. Forse, alla fine, la vera domanda non è chi vincerà tra efficienza ed efficacia, ma se ci sarà spazio per un terzo modello che non sia soltanto una forma elegante di irrilevanza.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
