Esci frastornato dal teatro Cagnoni di Vigevano – piazza perfetta per rodare in provincia una nuova avventura – e in fondo pensi che Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu siano due matti. Loro, quelli de Le iene, Camera Cafè, La strana coppia, fanno i due ladroni accanto a un Gesù che non c’è. In La passione secondo Luca e Paolo, scusate se è poco, parlano della vita e della morte, di non senso e di speranza. Velleitari? Sconsiderati? Neoconvertiti a sorpresa?
Sanno stare in scena: questa è una certezza. Vengono dallo Stabile di Genova, dalla sua scuola, hanno lavorato con Sciaccaluga e Besson, hanno fatto la gavetta. La tv in coppia è venuta dopo, dopo il cabaret, dopo l’avventura dei Cavalli marci, dopo. Sanno mettere in scena, altra certezza. Il testo firmato da loro insieme a Martino Clericetti e Michele Serra, con una drammaturgia ben strutturata da Giorgio Gallione, il forte segno scenico magrittiano di Guido Fiorato e le musiche efficaci curate dallo stesso Kessisoglu, ha una sua solida perentorietà. «C’è roba», avrebbe detto vedendoli Giorgio Gaber, cui per loro stessa ammissione devono qualcosa.
Soprattutto Luca e Paolo non ti rapinano, come usa fra le star tv di passaggio in teatro. Se scappano sono in fuga dal clichè, senza la cassa, che per ora – ma i primi 24 teatri in giro per l’Italia son già prenotati – è colmata dal loro produttore Beppe Caschetto (in collaborazione col Politeama Genovese), non senza qualche timore. Perché in questa loro “Passione” si sorride, certo, si ride anche di gusto: ma sempre con un retrogusto pensoso. Perché fra humour nero alla Celine, domande irrisolte alla Beckett e monologhi di puro teatro canzone, questi due matti di genovesi hanno rimesso in scena l’antico corpo a corpo col Cristo, il Cristo della croce e della speranza. Detta così è quasi un macigno, se non ci fosse l’arma letale dell’ironia. Letale perché ironia tutta in nero, quasi folle, sempre al limite: ma mai blasfema. Sta fra Beckett e Celine, abbiamo detto: ma anche fra Gaber e Totò & Peppino.
L’invenzione geniale è quella dei tre piani: i due ladroni ai piedi della croce, il controcanto per niente sublime di due scarafaggi che deridono l’inutile ricerca di senso degli uomini, e alcuni monologhi agrodolci che raccontano quello che siamo, miseria e nobiltà. Humour nero, celiniano leggero, sarcasmi gaberiani (quei “bisognerebbe…”, quei “ci vorrebbe…”), interrogativi ambiziosi. La scena è povera, nera, la croce è una sedia appesa sopra a un mini Golgota. A tagliarla dei semplici fondali e una quinta surreale con quegli uomini in bombetta senza volto di Magritte. C’è pure un feretro con tanto di candele, e i costumi da scarafaggi alla Melevisione versione dark sono una bella invenzione.
Forti anche le punteggiature musicali, col corredo di uno spiritosissimo gospel funkeggiante (“Morirai”) e una bellissima, trascinante canzone finale. Pungenti i monologhi a due sul funerale, sui comandamenti, sui miracoli, sulla solitudine. Godibilissimo il quiz con Dio per concorrente, strepitoso il colpo di scena finale (che non vi racconto). Ma è la grana tutta dello spettacolo, coi suoi continui cambi di registro, a convincere. Qualche settimana di repliche, un po’ di footing col pubblico, e questa Passione si rivelerà una delle scommesse più inattese della stagione.
«Io non riesco a capire quelli che sono tranquilli»: questa frase c’è rimasta sul taccuino e ce la rigiriamo fra le tasche. Da Luca e Paolo, quelli delle battutacce con Ilary? Sì, proprio da quelli lì.