Tutti conoscono Jeeg Robot, dai ragazzini per cui gli anni ‘80 sono solo una leggenda popolare fino ad arrivare ai quarantenni che – loro sì – hanno consumato occhi e pomeriggi di fronte alla tv, sognando di affrontare il malvagio Impero accanto al robottone di turno. Gabriele Mainetti, classe ‘76, deve far parte di quest’ultima categoria, perché il suo ultimo film è, tra le altre cose, un inno d’amore al robot d’acciaio e a Go Nagai, il suo genio ideatore, nonché padre del fumetto giapponese come lo conosciamo oggi.
A differenza di quanto il titolo possa far supporre, Lo chiamavano Jeeg Robot (con tanto di sottotitolo nipponico) è tutto ambientato a Roma, frazione di Tor Bella Monaca. Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) si guadagna da vivere con furti e altre attività criminali, e proprio durante una fuga dalla polizia entra in contatto con una misteriosa sostanza radioattiva. Dapprima confuso e imbrattato di melma tiberina, Enzo si accorge ben presto di aver sviluppato una forza sovrumana e decide di usarla per sbarcare il lunario. Purtroppo per lui, due ostacoli si frappongono tra lui e il suo progetto: la rivalità di un boss della zona, detto “lo Zingaro” (Luca Marinelli) e Alessia (Ilenia Pastorelli), giovane donna convinta che Enzo sia Hiroshi Shiba, alias “Jeeg robot d’acciaio”.
A circa un anno dall’uscita de Il ragazzo invisibile di Salvatores, l’Italia sforna un altro film di supereroi, ma, se si esclude il concept iniziale, le due pellicole non potrebbero essere più diverse. Se Salvatores si ispirava fortemente all’universo Marvel (I Fantastici 4, X-Men) trasportandolo al livello del protagonista ragazzino, Mainetti decide di girare un film violento, pesantemente drammatico e condito da un umorismo acido che vira verso l’autoparodia, sulla falsariga di Kick Ass o Super – Attento Crimine!!!. Come i protagonisti dei film appena citati, Enzo è un disadattato in un mondo di disadattati, il classico inquilino solitario con cui è meglio non avere a che fare.
Accanto a lui, e in maniera ancora più emblematica, le altre due facce del film si ritagliano a forza il proprio spazio. Alessia è una figura tristemente positiva, una “principessa” dall’accento romanaccio (come tutti, d’altronde) che, per sfuggire a un passato di abusi, si rifugia nel mondo fittizio di un cartone animato, finendo per affezionarsi all’uomo che lei crede essere l’eroe Jeeg Robot. Lo Zingaro, d’altro canto, è un villain talmente sopra le righe da far dimenticare quanto, a conti fatti, sia scopiazzato dal Joker di Batman: ambizioso, violento ed eccentrico, la sua sfrenata passione per la musica leggera italiana contribuisce a dargli un tono “fumettoso”, oltre a regalare una delle più divertenti scene di violenza sulle note di “Ti stringerò” di Nada.
Benché si respiri il Batman nolaniano a ogni angolo, con situazioni e trovate pressoché identiche se non per il budget, Lo chiamavano Jeeg Robot splende di vita propria, sfoggiando inquadrature di una bellezza che non sfigurerebbe a Hollywood in un contesto, però, che raccoglie tutto il marciume dei sobborghi romani e lo trasporta ad arte in un genere tipicamente non italiano. L’effetto è spiazzante, ma, superato il primo impatto, ci si trova di fronte a una piccola perla del cinema italiano, nonché a uno dei più interessanti film supereroistici degli ultimi anni.