A parte James Bond e oltre l’Ethan Hunt di Mission: Impossibile, il vero eroe del cinema d’azione seriale contemporaneo è Jason Bourne. Il personaggio creato da Robert Ludlum e interpretato da Matt Damon ha cambiato il modo di fare cinema d’azione grazie soprattutto a Paul Greengrass, il regista che dal secondo film della serie (Supremacy) ha preso in mano le redini, fatta eccezione per lo spin-off Legacy. Tornato a dirigere il quinto episodio della serie, Greengrass conferma tutte le sue caratteristiche che però sono diventate marchi di fabbrica fin troppo prevedibili.
Nicky, ex-agente della CIA, si infiltra in un ritrovo di hacker a Reykjavik per penetrare nei segreti dell’intelligence statunitense. Così facendo recupera quello che forse è il tassello mancante nella ricostruzione delle origini di Jason Bourne. Nicky riesce a contattare Bourne, datosi alla macchia, e l’incontro tra i due attira subito le attenzioni dei vertici dell’Agenzia, determinati a eliminare entrambi.
Scritto dal regista con Christopher Rouse, Jason Bourne è un tipico action movie spionistico contemporaneo, fatto di azione al fulmicotone, tecnologia e implicazioni di attualità che però decide di muoversi su territori molte volte esplorati dando una sensazione di convenzionalità che stona rispetto ai film precedenti. Il vero grande limite del film di Greengrass è adottare una serie di scelte narrative e registiche che con il passare degli anni sono diventate lo standard della produzione cinematografica e televisiva del genere, senza riuscire mai – o avere troppa voglia – di ravvivarle, di inventare qualcosa: la costruzione narrativa e l’impianto di messinscena sembrano debitori di “24”, la straordinaria serie tv in tempo reale con Kiefer Sutherland, per esempio negli stereotipi dei personaggi (l’outsider dentro la giustizia ma fuori dalla legge, il capo viscido, l’agente doppiogiochista, la dialettica tra nemico interno e nemico esterno) o nelle dinamiche della regia soprattutto nelle scene con montaggio parallelo, ma anche la macchina e i continui brevissimi zoom a sottolineare la tensione nervosa. Persino i meccanismi della suspense, fatti di continui countdown, sono elementi basici e riciclati.
Dove Greengrass potrebbe lasciare la sua zampata è nel ritmo e nell’impostazione delle scene d’azione: ma anche qui si è preferito un comodo standard. Chiaro che i mezzi e la perizia tecnica del regista sono sopra la media, ma qui sembra un alibi per lasciare che i tempi morti abbondino, convinti che le tre scene madri basteranno e avanzeranno: ma se l’inseguimento americano è roboante e spettacolare, la decantatissima sequenza iniziale ad Atene nella sua notevole cura registica è solo un ampliamento di idee e modi di intendere il genere che Greengrass lanciò anni fa e che sono diventate comuni, come il mix tra spettacolo pirotecnico e realtà (lo stesso “24” o “Homeland”, per restare in ambito tv).
E con Damon ridotto al ruolo di puro corpo d’azione dimenticandosi il suo essere anche attore valido, con i tre cattivi (Tommy Lee Jones, Alicia Vikander e Vincent Cassel) che hanno gioco facilissimo a rubare la scena, si ha la sensazione non troppo piacevole che il cinema di genere e ad alto budget abbia del tutto perso la voglia di marcare il proprio territorio, di imporre una superiorità di immaginario, ripiegando su consuetudini soprattutto visive più affini al pubblico medio del piccolo schermo. Anche quando si tratta di registi e attori che un certo tipo di cinema potrebbero davvero rivoltarlo come un calzino.