Cosa non funzionò nei due film dedicati a Lara Croft, Tomb Raider e Tomb Raider: La culla della vita, all’inizio del XXI secolo? Se lo sono sicuramente chiesti i produttori che hanno dato vita al reboot cinematografico di una serie di videogiochi che a sua volta aveva avuto una ripartenza 5 anni fa. Angelina Jolie rese il personaggio un’icona, ma i film non brillarono né per qualità, né per incassi.
A questo giro cambiano il regista, il norvegese Roar Uthaug, e la protagonista, Alicia Vikander, che per fisico e corde recitative è all’opposto di Jolie (e nemmeno troppo somigliante al nuovo personaggio digitale), e più o meno cambia il tono del film che – scritto da Geneva Robertson-Dworet e Alastair Siddons – racconta per la prima volta le origini del personaggi di Lara, bambina abbandonata dal padre disperso alla ricerca di qualcosa di misterioso, intraprendente e ribelle che seguirà le orme del padre al largo delle isole giapponesi.
Infatti, anziché la mera riproposizione visiva dei meccanismi del gioco per esaltare tanto la computer grafica quanto per sottolineare le capacità seduttive della protagonista, il nuovo Tomb Raider punta alla costruzione di un personaggio come fosse ex-novo, cercando di conquistare il pubblico con elementi nuovi. Fin dalla prima sequenza, Uthaug mette in scena la combattività della protagonista in abiti da boxeur thai e ne descrive il personaggio attraverso il rapporto tra le sue fragilità emotive e l’indole guerriera, puntando esplicitamente alla modernità di genere (sottolineata dal fatto che al centro di tutto c’è una demone giapponese), sulla mascolinità del personaggio.
Sull’ovviamente immutabile schema ludico della caccia al tesoro, Tomb Raider cerca toni più compatti, rifiuta l’ironia baracconesca dei vecchi film, non usa Lara come una figurina, ma cerca nei limiti dello script di sfruttare Vikander come attrice. Ma l’impegno produttivo e realizzativo, soprattutto nell’approccio a una materia simile con la nuova consapevolezza femminista, non basta a Uthaug per cavarne un film davvero appassionante, avvincente e divertente, specie se il punto d’arrivo è sempre e solo l’inarrivabile immaginario spielberghiano (non solo evidentemente Indiana Jones, specie L’ultima crociata di cui Tomb Raider sembra una specie di remake: la scena dell’aereo sospeso sulla cascata ricorda una scena similare in Il mondo perduto).
A Uthaug non manca la tecnica, a guardare per esempio l’inseguimento in bicicletta, manca però lo sguardo, il senso del meraviglioso, la capacità registica di rendere un canovaccio basico avvincente come una corsa in giostra. Un’occasione mancata per troppa prudenza e con una protagonista che ci mette il fisico, ma che si trova sperduta, vagamente fuori parte, soprattutto quando si trova a dover davvero recitare.
A furia di dare corpo e “spessore” a Tomb Raider, il film perde le occasioni di sfoderare lo spettacolo desiderato con una seriosità familiare che blocca la parte centrale e con un gran finale che è davvero modesto in senso registico. Anziché esaltare il lato fanciullesco e giocoso del cinema, Tomb Raider sembra voler inchiodare il pubblico alla sua maturità, al dovere di crescita: ed è un paradosso che blocca e spegne il potenziale del film.