A Gaza aiuti bloccati, in Cisgiordania case abbattute e posti di blocco: è l’agonia dei cristiani. A Betlemme 147 famiglie se ne sono andate
Circa 800 posti di blocco in Cisgiordania, con 3mila case abbattute e 9mila persone arrestate senza un capo d’accusa. Per non parlare, naturalmente, dei morti (oltre 50mila) e delle distruzioni che continuano a Gaza. Una situazione devastante della quale risentono anche le comunità cristiane della Terra Santa, che soffrono di una povertà inaudita e dell’impossibilità di movimento che accomunano, anche se con modalità diverse, la West Bank e la Striscia.
I luoghi santi non sono più meta di pellegrini e turisti e questo ha causato una grave crisi economica in questi territori. Solo a Betlemme, racconta padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, 147 famiglie se ne sono andate, preferendo cercare all’estero una sistemazione. Le incursioni dell’esercito israeliano e dei coloni in Cisgiordania riguardano anche questa zona, come quelle di Jenin, Tulkarem, Nablus. Per questo si contano 60mila sfollati, molti dei quali hanno trovato rifugio da parenti o conoscenti. Ma le risorse stanno finendo anche per loro.
Israele continua a smantellare le abitazioni dei palestinesi in Cisgiordania, anche nella zona di Betlemme. La comunità cristiana sta subendo gli effetti di questi interventi? Come si vive nei luoghi santi e com’è nello specifico la situazione dei cristiani in questi territori?
La comunità cristiana della Cisgiordania non sta direttamente avendo difficoltà di questo genere, ma vive i disagi e le limitazioni di una situazione di guerra. Stiamo vivendo un lungo periodo di paure e di tensioni che blocca ogni possibilità di lavoro a causa della limitazione di movimento e di libertà. A Gerusalemme e nelle altre città della Terra Santa, le comunità cristiane soffrono per la povertà e per l’instabilità della vita nella terra dove sono nate e dove vorrebbero continuare a professare la loro fede. A Gaza la tragedia della guerra è enorme e devastante, ma anche nel resto della Terra Santa la situazione è molto precaria e preoccupante.
Le cronache dicono che Israele sta chiedendo almeno ad alcuni palestinesi di pagare le spese delle loro case abbattute, anche se sono state distrutte dai soldati. Cosa succede materialmente a Jenin, Tulkarem, Nablus, quando arrivano i soldati israeliani e i coloni? Ora si parla di almeno 60mila sfollati: dove si sono rifugiati, come riescono a sopravvivere?
Le città della Cisgiordania sono divise fra loro da numerosi checkpoint, circa 800, che impediscono il movimento delle persone, mentre l’esercito israeliano e i coloni hanno libero accesso ovunque. È una situazione che viene definita solitamente “a macchia di leopardo”. Jenin, Tulkarem, Nablus sono state sempre città particolarmente colpite da attacchi dell’esercito e da invasioni di coloni che si impossessano di terre e di abitazioni.
Quanto sono estesi questi attacchi?
In questi ultimi tempi la situazione si è notevolmente aggravata: si parla di più di 3mila case abbattute e di 9mila arresti cosiddetti amministrativi, cioè detenzioni di 6 mesi rinnovabili che non hanno bisogno di capi d’accusa. Tanti campi profughi sono stati devastati e gli sfollati trovano rifugio e solidarietà presso persone che condividono il poco che hanno, fino a quando avranno risorse. A differenza di Gaza, dove non entrano gli aiuti umanitari da un mese e quindi la popolazione sta morendo di fame, di sete e non può ricevere farmaci e cure, anche a causa della mancanza di energia elettrica.
La guerra ha bloccato completamente l’afflusso di turisti e pellegrini in Terra Santa causando una forte crisi in un settore in cui sono impegnati i cristiani, molti dei quali hanno abbandonato il Paese con le loro famiglie. Com’è la situazione?
Dal 7 ottobre 2023, 147 famiglie di Betlemme hanno lasciato la Terra Santa per nazioni più sicure e per dare un futuro ai propri figli. È un esodo che continua fra tante difficoltà e con la sfiducia nella possibilità di un ritorno ad avere un lavoro nella terra dove sono nati. La Custodia di Terra Santa offre lavoro, abitazioni, istruzione e sostegno a tante necessità, ma abbiamo molte difficoltà dopo tanti anni di tensioni, dopo la pandemia e dopo 18 mesi di guerra. Confidiamo nella Provvidenza e nei benefattori sempre sensibili alle necessità della Terra Santa. La colletta del Venerdì Santo sostiene i bisogni vitali dei cristiani di questa terra benedetta.
Quante chiese sono state danneggiate a causa della guerra e come le limitazioni alla libertà di movimento, nella West Bank come a Gaza, stanno impedendo la libertà di culto?
All’inizio di questa guerra fu gravemente colpita la chiesa ortodossa di San Porfirio. Grazie a Dio i danni materiali alle chiese cristiane di Gaza sono stati limitati. I cristiani delle varie confessioni sono una minoranza in Terra Santa e la convivenza fra palestinesi di religione cristiana e musulmana è sempre stata pacifica. Rispettano reciprocamente riti, liturgie e tradizioni, soprattutto in questo periodo di Ramadan per i musulmani e del tempo forte della Quaresima per i cristiani. Purtroppo è impossibile per i cristiani di Gaza raggiungere Gerusalemme per i riti pasquali ed è molto difficile per i cristiani della Cisgiordania. La limitazione di movimento impedisce la condivisione della fede più che la libertà di culto.
A Gaza i cristiani si sono riuniti nella parrocchia latina per cercare di resistere insieme alla guerra. Che danni hanno avuto le strutture della comunità e come stanno vivendo ora che in molte zone sono ricominciati i bombardamenti? Quanto pesa il nuovo blocco degli aiuti da parte delle autorità israeliane?
Sono 600 i cristiani riuniti nella parrocchia latina di Gaza, hanno trovato rifugio e protezione nei locali della scuola e della parrocchia. Sacerdoti e suore accoglienti e generosi hanno saputo gestire una situazione difficile e dolorosa. La ripresa della guerra sta mettendo in seria difficoltà la possibilità di dare sostegno a chi si è rifugiato in quel luogo sacro. Le riserve stanno terminando e gli aiuti non arrivano. Le comunità cristiane sono comunque unite nella preghiera e nella speranza.
Ha fatto scalpore, se mai fosse possibile in una guerra così violenta, l’uccisione a Gaza dei paramedici della Mezzaluna Rossa, i cui corpi sono stati ritrovati legati, segno che sono stati giustiziati sul campo. Anche i soccorritori sono ormai un bersaglio dichiarato?
La guerra mette in evidenza aspetti particolarmente disumani. Colpisce che non ci sia umana pietà per i bambini, per i deboli, per gli indifesi e per chi si sacrifica per aiutare gli altri. L’attacco ai paramedici è l’ennesimo attacco alla dignità dell’umanità. A Gaza non entrano gli aiuti e non entrano volontari da molto tempo. Si provoca morte e distruzione e non si dà la possibilità di aiutare. Al confine con l’Egitto sono fermi molti camion carichi di aiuti e tanti volontari pronti a entrare a Gaza per dare aiuto e solidarietà.
La ripresa dei bombardamenti in una terra già distrutta sembra che abbia un unico obiettivo: espellere i palestinesi dalla Striscia, distruggendo a tal punto il territorio da impedire loro di restare. È questo lo scopo degli attacchi militari? Come e dove sta colpendo Israele e come reagisce la gente di fronte all’ipotesi di una deportazione?
La deportazione è stata chiaramente richiesta e suggerita agli Stati arabi confinanti. Gaza è distrutta, la gente è stanca e debilitata dalle sofferenze fisiche e morali, ma non vuole lasciare la propria terra e non vuole abbandonare le macerie delle proprie case che molto spesso hanno seppellito i loro cari, i loro ricordi, la loro storia. Credo che la comunità internazionale debba tutelare i diritti essenziali e vitali della popolazione di Gaza, senza dimenticare il diritto di rimanere ad abitare la propria terra. È responsabilità dell’umanità intera, che risponderà a Dio e alla storia.
(Paolo Rossetti)
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