I vescovi conciliari riuniti a Nicea per volontà dell’imperatore Costantino chiarirono definitivamente quale rapporto sussiste tra il Padre e il Figlio (1)
“Il Concilio di Nicea non è solo un evento del passato – ha detto Papa Leone XIV in occasione del simposio Nicea e la Chiesa del Terzo Millennio: verso l’unità cattolica-ortodossa (Roma, 4-7 giugno 2025) – ma una bussola che deve continuare a guidarci verso la piena unità visibile dei cristiani […] non è semplicemente un Concilio tra gli altri o il primo di una serie, ma il Concilio per eccellenza, che ha promulgato la norma della fede cristiana, la confessione di fede dei ‘318 Padri’”.
Abbiamo chiesto a don Alberto Cozzi – docente di teologia sistematica nella Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, l’Istituto superiore di scienze religiose e il Seminario arcivescovile di Milano e membro della Commissione teologica internazionale – di aiutarci a comprendere l’importanza che assume, ancora oggi, dopo 1700 anni, il Concilio di Nicea convocato nel 325 d.C. dall’imperatore Costantino.
Partiamo da alcune considerazioni sull’origine del Concilio: quali fattori (religiosi, ecclesiali e politici) hanno motivato l’imperatore Costantino, che non era neppure battezzato, a convocarlo nel 325? Che cosa sperava di ottenere per l’Impero e per la Chiesa?
L’imperatore Costantino interpretava la sua funzione di custode della pace dell’impero e di guida dei popoli includendo la funzione di Pontifex Maximus e quindi con la preoccupazione di mettere ordine anche nelle cose religiose. Si considerava, ad un certo punto, “vescovo addetto alle cose temporali”. Lo faceva seriamente. Aveva già risposto con sollecitudine al vescovo Ceciliano di Cartagine che aveva chiesto al “potere imperiale” di restituire alla Chiesa i beni confiscati nello scisma donatista. I seguaci di Donato erano cristiani rigoristi che durante le persecuzioni non avevano rinnegato la fede e si consideravano i veri cristiani, escludendo gli altri; per questo si impossessavano di Chiese e altri beni ecclesiali.
Sempre per risolvere le controversie legate a tale scisma dell’Africa settentrionale, Costantino aveva convocato nel 324 un Sinodo ad Arles. Non deve quindi stupire che un imperatore, proprio nell’interpretare il suo ruolo in epoca romana imperiale, si occupasse di cose di Chiesa. Temi come la laicità del potere civile o la separazione degli ambiti di competenza non erano nelle corde della mentalità romana e imperiale dell’epoca. L’imperatore si doveva interessare del bene integrale dei cittadini.
In che misura è lecito parlare di un’intenzionalità religiosa nella sua iniziativa imperiale?
La novità di Nicea sta nel fatto che l’imperatore in persona presiedette i lavori del Concilio, dimostrando l’importanza dei temi in gioco. Aveva un consulente competente di questioni teologiche, il vescovo Osio di Cordoba. Alcuni storici sottolineano come Costantino fosse sinceramente devoto nei confronti dei vescovi, che spesso ricopriva di donazioni di grano o denaro o lusingava con inviti ai banchetti.
Bisogna comunque dire che Costantino aveva scelto il Dio dei cristiani, esplicitamente, nel 324, e quindi aderiva sinceramente alla fede cristiana, per quel che ciò poteva significare a quel tempo. Di fatto, mise a disposizione dei vescovi il cursus publicus, cioè il sistema di viaggio utilizzato da ufficiali e messi imperiali, facilitando lo spostamento dei vescovi. Così realizzò il primo Concilio ecumenico, alla presenza di più di duecento vescovi.
Che cosa sperava di ottenere per l’Impero e per la Chiesa?
Il testo finale approvato doveva essere per Costantino una sorta di “protocollo di intesa” che mettesse fine a ogni disputa e ristabilisse la pace religiosa nell’Impero. Ma così non fu fino al 380 circa.
Il Concilio usò una parola nuova – consustanziale (homooúsios) – per parlare di Gesù in rapporto a Dio Padre. In che modo la definizione di consustanzialità tra il Padre e il Figlio contribuisce a chiarire l’identità del Figlio?
Il termine, nel simbolo di Nicea, è preceduto da un “cioè” (che verrà tolto al Costantinopolitano I e quindi nel Credo che diciamo ora a Messa): “Generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre”. Tale “cioè” è molto istruttivo. Dice anzitutto che non si voleva modificare il simbolo di fede, ossia il Credo battesimale, aggiungendo altre verità di fede, ma si intendeva solo offrire precisazioni anti-eretiche, che escludessero l’errore e custodissero la fede degli Apostoli.
In secondo luogo, dice che il Figlio, generato dal Padre, ha una relazione speciale con lui fin dall’origine, una relazione nella quale Dio Padre comunica ciò che lui stesso è, la sua natura, non qualcosa di inferiore. Una generazione “della stessa sostanza” dice che non si tratta di una creazione “dal nulla”, né del frutto della volontà del Creatore al principio della creazione. Si tratta di una generazione “dalla stessa sostanza” fin dal principio, anzi prima di tutti i secoli. Come nella generazione umana un padre e una madre donano al figlio la loro stessa natura umana, analogamente avviene in Dio.
Ciò significa che il Figlio, apparso in Gesù, considerato come il Logos, non è solo una creatura speciale o il piano di Dio sul cosmo, una sorta di progetto divino frutto della sapienza creatrice, a partire dal quale sarebbero poi state fatte tutte le cose. Il Figlio è anzi Dio in senso pieno come il Padre: “In Principio era il verbo e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio” (Gv 1,1-2); “Io e il Padre siamo uno” (Gv 10,30); “Ora, glorificami tu, Padre, con la gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,5). Gesù quindi ci rende partecipi della natura divina, essendo pienamente uguale al Padre.
Perché era così importante per i vescovi affermare che Gesù è consustanziale (della stessa sostanza) al Padre?
Il termine consustanziale era stato rifiutato da Ario e dal suo partito come pericoloso ed equivoco, perché sembrava ridurre la natura divina a una sorta di sostanza divisibile e partecipabile. Ma il senso del termine va colto alla luce della duplicazione esplicativa “cioè”: il Logos/Figlio è generato prima dei tempi, dall’eternità, dalla stessa sostanza del Padre e non dal nulla nel tempo. Il suo vero significato si può rendere come segue: il Figlio è in tutto uguale al Padre, per cui ciò che dico di Dio Padre lo devo dire anche del Figlio (eterno, onnipotente, sapiente), tranne l’essere Padre e l’essere Figlio.
Veniamo all’oggi. Viviamo in una società segnata dal pluralismo religioso e da letture etico-simboliche della figura di Gesù: quale rilevanza riveste oggi la cristologia nicena che unisce l’affermazione della divinità e della piena umanità di Cristo?
La sfida della cultura attuale è meno quella del pluralismo quanto piuttosto l’ateismo semantico. Mentre l’ateismo tradizionale nega l’esistenza di Dio, l’ateismo semantico nega il nome stesso di Dio, in quanto ritiene che il linguaggio religioso sia privo di senso. Il pluralismo religioso, paradossalmente, ci richiama al fatto che ogni essere umano e civiltà ha la sua religiosità e che la ricerca di Dio è inscritta nel cuore umano. L’ateismo semantico invece è quella condizione in cui ci si accorge che non c’è mai bisogno di parlare di Dio per dire il significato di ciò che si sta vivendo. Nel nostro contesto sociale e culturale non si deve parlare di Dio per dare senso a ciò che si sta facendo o sperimentando. Ne deriva un silenzio su Dio che lo rende irrilevante e rende indifferente parlarne, nel senso che non fa differenza tacerne il nome e ignorarne l’esistenza.
Cosa ci dice, a questo punto, il Concilio di Nicea?
Il dogma di Nicea, invece, richiama il fatto che, quando parliamo di Gesù, del suo avvenimento storico sotto Ponzio Pilato, della sua umanità crocifissa e risorta, per comprendere davvero cosa è accaduto dobbiamo parlare di Dio Padre e del dono dello Spirito. Gesù ci insegna a leggere l’umano e la sua storia alla luce del Mistero divino. Non devo togliere qualcosa all’umano per far posto a Dio e non devo diminuire il divino per dare consistenza all’umano. La presenza di Dio è inscritta nella nostra storia, nelle fibre della nostra umanità e dona uno spessore più profondo alle cose che viviamo.
Proprio la “vera umanità” di Gesù ci ha comunicato la verità di Dio, rendendo presente tra noi la “relazione consustanziale” tra Padre e Figlio. Ma solo la forza dello Spirito, la sua grazia, ci può inserire in quella relazione (“Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre…”, Mt 11,25-27). Di più: Nicea ci ricorda che la fede in Gesù mette in gioco una comunicazione in cui Dio non ci svela solo i segreti del cosmo o il significato delle cose, ma ci apre il segreto della sua vita divina eterna (la generazione consustanziale), chiamandoci alla comunione con Lui per l’eternità. C’è in gioco il nostro destino ultimo, ciò per cui siamo fatti. Noi abbiamo nel cuore un desiderio infinito proprio per potere ricevere la stessa vita divina come dono da condividere per sempre in Cristo. Cambia l’orizzonte del vivere.
Sant’Agostino si chiedeva perché Dio ci ha rivelato cose così profonde e difficili su di sé e rispondeva che lo ha fatto per prepararci alla visione beata in Paradiso. Una pregustazione della vita eterna coi santi: incohatio beatitudinis in nobis.
Per i cristiani, perché è così importante dire che Gesù è “vero Dio e vero uomo”? Cosa cambia per la nostra vita se questo è vero? Che legame c’è tra la fede professata nel Credo e il modo in cui ci concepiamo come esseri umani?
Rispondo con una bellissima citazione di Henri de Lubac, teologo e cardinale, nel suo capolavoro Catholicisme, laddove il teologo gesuita ci fa notare come la fede ci chiede di scrutare le profondità di Dio per scoprire le profondità del mistero che è l’uomo. Il contrario di quanto pretendevano di fare le diverse forme di ideologia, quando proclamavano di sapere ormai cosa è l’uomo e come funziona. In realtà l’uomo supera infinitamente l’uomo e rimane inafferrabile nel suo mistero: “Il Vangelo (…) scava nell’uomo nuove profondità che lo accordano con le ‘profondità di Dio’, e lo lancia fuori da se stesso fino ai confini della terra; universalizza e rende interiore; dà personalità e unifica… Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, Cristo finisce per rivelare l’uomo a se stesso. Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penetrando fino in fondo nel suo essere, forza anche lui a scendere dentro di sé per scoprirvi bruscamente regioni fino ad allora insospettate” (Catholicisme, p. 257s).
Il commento più bello a questo brano di De Lubac è una citazione di sant’Ambrogio sui “salti del Verbo”, che viene a incontrare l’essere umano. Chi si mette alla ricerca del Signore Gesù, si accorge ben presto che è Lui in persona che si affretta a venire da noi, anzi il Figlio di Dio fa dei veri e propri salti per raggiungerci: dobbiamo perciò seguire i salti del Figlio eterno che viene dal seno del Padre al grembo di Maria, poi salta nella tomba e da lì ascende fino al cielo.
Seguendo questi salti scrutiamo il mondo in cui siamo chiamati a vivere e ci stupiamo della sua ampiezza, che sconfina nella vita eterna di Dio: “Io desidero che sia svegliato il mio amore, io mi considero ferita d’amore, ed ecco che il mio amore stesso ha ancor più fretta di venire da me. Io gli ho detto: vieni! Ed egli salta e scavalca (…) Guardiamo i suoi salti! Salta dal cielo ad una Vergine, dal suo seno al presepe, dal presepe al Giordano, dal Giordano alla croce, dalla croce al sepolcro, al cielo dal sepolcro. Confermameli tu, Davide, questi suoi salti! Conferma la sua corsa” (Ambrogio, Commento al Salmo 118, 6.6). (1 – continua)
(Nicola Ruisi)
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