I bias cognitivi possono rivelarsi utili in alcune situazioni per prendere decisioni rapide riducendo l'incertezza
Siamo ossessionati dal perfezionismo: nei nostri smartphone desideriamo la fotocamera più all’avanguardia, nei nostri cervelli pretendiamo decisioni impeccabili. Eppure, quei “difetti” mentali chiamati bias cognitivi sono sopravvissuti a millenni di evoluzione. Un po’ come quel vecchio maglione sformato che continuiamo a indossare nonostante la moda suggerisca altro.
Nel contesto aziendale questi meccanismi assumono particolare rilevanza. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Behavioral Decision Making nel 2018, i manager prendono in media 35 microdecisioni al giorno, di cui il 60% basate su euristiche rapide piuttosto che su analisi approfondite.
I bias cognitivi sono stati tradizionalmente considerati difetti del pensiero umano, imperfezioni da correggere. Questa visione, tuttavia, contrasta con una semplice osservazione evoluzionistica: se fossero stati puramente disfunzionali, l’evoluzione li avrebbe eliminati secoli fa.
La nostra società contemporanea ci bombarda di scelte: dal menu di Netflix alle opzioni del distributore automatico, viviamo in un costante stato di sovraccarico decisionale. In questo contesto frenetico, dove la soglia d’attenzione è ridotta ai minimi termini (studi recenti riportano che sia meno di otto secondi), i bias diventano preziosi alleati.
Ad esempio, il bias di disponibilità, che ci fa formulare giudizi in base alle informazioni più disponibili, era perfetto quando dovevamo ricordare quali bacche avevano avvelenato il “vicino di grotta”. Oggi, questo stesso meccanismo influenza profondamente le decisioni di investimento aziendali, come dimostrato da una ricerca di Kahneman e Tversky del 1973, portando i decision-maker a dare peso eccessivo a eventi recenti o emotivamente salienti.
Oppure, il bias del presente, che ci fa preferire gratificazioni immediate, era assolutamente sensato quando il futuro era incerto quanto la data di scadenza di uno yogurt dimenticato in frigo. Nel mondo corporate, questo bias è documentato negli studi di Frederick et al. (2002) sul “temporal discounting”, dimostrando come influenzi significativamente le scelte di investimento a lungo termine.
In un ambiente dove ogni giorno prendiamo migliaia di decisioni, dall’abbigliamento alle strategie aziendali, dall’itinerario per andare al lavoro alla risposta da dare a una e-mail cruciale, la capacità di semplificare diventa non solo utile ma necessaria. Il cervello umano consuma circa il 20% dell’energia totale del corpo nonostante rappresenti solo il 2% del peso corporeo. Ogni scorciatoia cognitiva è dunque un risparmio energetico, una strategia di sopravvivenza in un mondo complesso.
Senza queste euristiche mentali, saremmo paralizzati dall’analisi, incapaci di muoverci in un universo di possibilità infinite. Questo fenomeno è stato ampiamente documentato nella letteratura di management. Uno studio della Columbia Business School del 2014 ha rilevato che l’eccesso di informazioni può ridurre l’efficacia decisionale del 30%, creando quello che i ricercatori chiamano “decision fatigue”.
Amazon ha costruito parte del suo vantaggio competitivo proprio riconoscendo questo rischio: la filosofia documentata di Jeff Bezos distingue tra “decisioni di tipo 1” (irreversibili, che richiedono attenta considerazione) e “decisioni di tipo 2” (reversibili, che dovrebbero essere prese rapidamente). Questa distinzione, descritta in diverse lettere annuali agli azionisti, rappresenta un approccio pragmatico ai bias cognitivi.
Anche Netflix ha documentato nel suo “Culture Deck” l’importanza di prendere decisioni rapide con informazioni incomplete, abbracciando il concetto di “informed captain”: leader che agiscono con i migliori dati disponibili piuttosto che attendere l’analisi perfetta.
Invece di combattere questi meccanismi mentali come fossero virus informatici, potremmo considerarli come app preinstallate, strumenti imperfetti ma utili in specifiche circostanze. Non si tratta di celebrare l’irrazionalità, ma di riconoscere che molti bias sono ottimizzati per prendere decisioni “sufficientemente buone” in contesti di incertezza e informazioni limitate.
Abbracciare questa prospettiva significa liberarsi dal costante senso di inadeguatezza cognitiva, dalla frustrazione di non essere abbastanza razionali. Significa apprezzare la saggezza evolutiva incorporata in queste apparenti imperfezioni. È come scoprire che quel difetto estetico che ci ha sempre infastidito è in realtà considerato un segno distintivo di bellezza in un’altra cultura.
Forse è tempo di un rebranding: non “errori cognitivi” ma “strategie adattive di sopravvivenza nell’incertezza”. È meno accattivante per il titolo di un libro, certo, ma rappresenta un approccio molto utile alla nostra mente.
In fondo, in un mondo dove nemmeno i supercomputer possono calcolare tutte le variabili, quella che chiamiamo imperfezione potrebbe rivelarsi semplicemente una forma diversa di intelligenza più umana, meno algoritmica e sorprendentemente efficace.
La prossima volta che prenderete una scorciatoia mentale in sala riunioni, non sentitevi in colpa: state solo utilizzando uno dei più antichi e collaudati software di sopravvivenza umana. E forse, proprio come ha dimostrato Gerd Gigerenzer nei suoi studi sull'”ignoranza intelligente” (pubblicati in “Simple Heuristics That Make Us Smart”, 1999), la vostra decisione imperfetta ma rapida potrebbe rivelarsi più efficace di un’analisi troppo elaborata e dispendiosa in termini di tempo e risorse.
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