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Home » Lavoro » CONTRATTI A TERMINE/ I tanti dilemmi in 5 righe del decreto rilancio

  • Lavoro

CONTRATTI A TERMINE/ I tanti dilemmi in 5 righe del decreto rilancio

Simone Brusa
Pubblicato 24 Maggio 2020
Pixabay

Pixabay

La norma del decreto rilancio relativo alla proroga dei contratti a termine pone diversi interrogativi sull'interpretazione corretta da darle

Il 19 maggio ha finalmente raggiunto la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il c.d. “Decreto Rilancio” (Decreto Legge n. 38/2020), ossia l’articolato normativo inizialmente annunciato come “Decreto Aprile” (e già questo pone degli interrogativi…). Il Decreto Legge si propone di offrire strumenti per fronteggiare l’emergenza sanitaria e sociale in atto. L’intento era ed è sicuramente lodevole, oltre che necessario.


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Tuttavia, ancora una volta, il prodotto finale fa emergere un problema di metodo non di poco conto: la volontà evidente di proporre – dall’alto – strumenti onnicomprensivi deve fare i conti (o, forse, avrebbe dovuto fare i conti) con lo scenario normativo italiano. Quest’ultimo, al momento, rimane un coacervo di norme da sbrogliare e riordinare nel tentativo di giungere a una corretta comprensione del loro contenuto, anche mediante il ricorso a un’interpretazione sistematica (che, come vedremo, in alcuni casi è pressoché impossibile).


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Di seguito alcune criticità che emergono da una prima lettura dell’art. 96, in materia di contratto a tempo determinato (che, si badi, è una norma di sole 5 righe).

Ecco la norma:

“In deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.


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L’intento del legislatore è chiaro: creare uno spazio di “proroga” e di “rinnovo” senza la necessità di specificare le condizioni di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 (e quindi le famigerate “causali” introdotte dal Decreto Dignità per ogni caso di rinnovo e per le proroghe per un periodo superiore ai 12 mesi).

Ma, detto l’intento, l’applicazione della norma pone più di qualche dilemma:

– il “riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19” è da considerare quale requisito necessario (forse sì) per l’applicazione della deroga o è solo una clausola di stile?


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– ma se un’azienda ha sospeso le attività di un solo reparto, la possibilità di usufruire della deroga vale solo per quel reparto o è applicabile a tutta la compagine aziendale?

– e se “il riavvio” fosse da considerare un requisito, andrebbe scritto nel contratto (a questo punto, prudenzialmente, si) o basterebbe che sussista nei fatti?

– e perché escludere da tale regime “in deroga” gli assunti post 24 febbraio 2020 o i cessati prima del 24 febbraio 2020?

– e ancora, cosa si intende per “è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020″? Significa che le proroghe e i rinnovi “in deroga” devono avere scadenza massima al 30 agosto o che devono essere stipulati entro tale data ma possono avere scadenza anche successiva?


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Agli interpreti il non facile compito dell’interpretazione: forse, la concretezza delle vicende stimolerà la corretta composizione dei dubbi sopra indicati.

Alla luce di queste criticità, appaiono però due temi “metodologici”.

In primo luogo, le incertezze e le ambiguità della norma rischiano di generare un’inevitabile diffidenza verso l’applicazione della stessa con la conseguenza che, semplicemente, ci saranno meno assunzioni a tempo determinato di quelle che si sarebbero potuto avere. In secondo luogo, una riflessione dal carattere forse più “politico”: la volontà di affrontare una situazione così complessa con lo strumento del Decreto Legge era e sembra essersi confermato compito immane. Ma allora, a maggior ragione, perché ostinarsi a utilizzare lo strumento del Decreto Legge sacrificando il ruolo del Parlamento?


INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori


Non si discute la comprensibile difficoltà di una discussione parlamentare su un tema così ampio e complesso, ma non poteva essere l’occasione di assumersi (tutti) la responsabilità di un confronto parlamentare serio e proficuo? Compito arduo, ma che avrebbe forse consentito di “vedere in anticipo” alcune delle problematiche applicative.

Tale possibilità sarà comunque ancora offerta dal dibattito parlamentare previsto per la conversione in legge del Decreto citato, ma, di fatto, fino ad allora saranno vigenti le norme così come attualmente previste. Staremo a vedere.

Un’ultima osservazione: prima della conversione in legge (e, se non vi fossero modifiche, anche dopo) i problemi interpretativi aperti potrebbero essere “risolti” solo da provvedimenti amministrativi (le tanto anelate circolari di Ministeri e/o Inps) che si ritroverebbero però a dare interpretazioni che, esorbitando la loro competenza, assumerebbero valore “quasi normativo” (ancora senza alcun contributo parlamentare).

E infine, ancora una volta, l’interpretazione “definitiva” spetterebbe alla Magistratura che quindi dovrà dare applicazione a norme non univoche, assumendosi così responsabilità che (probabilmente) avrebbe volentieri lasciato al potere legislativo.

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