CORONAVIRUS/ La vera paura è quella che ha spezzato i nostri rapporti
Chi scrive ha respirato negli Usa la paura del dopo-11 settembre. Anche a Bologna oggi, a causa del coronavirus, regna la paura, soprattutto quella del prossimo

Frozen skies (Cieli congelati) era la frase per descrivere i cieli, il giorno dopo l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, che si svuotavano degli aerei e non si poteva più partire. Così per settimane. La polizia controllava il passaggio delle auto alle entrate dei tunnel, circondava templi ebrei e musulmani, e si trovava in vari posti strategici nell’isola di Manhattan. Navi da guerra erano apparse nella baia di fronte a Fort Hamilton nel fiume Hudson.
Ci muovevamo giorno dopo giorno in uno stato di incredulità, mentre si contavano i morti non solo delle torri ma dei pompieri. La metà dei nostri pompieri, a Park Slope in Brooklyn, erano deceduti per essere stati fra i primi a raggiungere la strage così vicina.
Ho provato lo stesso stato di incredulità oggi qui a Bologna, in una Italia frozen. Nella città in cui fino alla scorsa settimana, pur sapendo che attorno e molto vicino si contavano i contagiati e anche alcuni morti, eravamo riusciti a mantenere un sapore di normalità dopo l’iniziale shock della chiusura di scuole, università, musei, cancellazioni di eventi e vita culturale in genere. La città era diventata alcun che di desolato e triste, ma ai bar ci si poteva fermare a prendere un dolce e un caffè, magari in compagnia di un’amica. Qualcosa stava funzionando bene perché a Bologna il contagio era contenuto, non era diventato un focolaio, non si era esteso precipitosamente. Si notava una certa presenza di allegri camminatori a fare una salutare passeggiata nei colli, salendo su a Villa Ghigi e poi fino all’Eremo, dove la chiesa era buia e vuota ma aperta. C’era uno splendente sole e un cielo luminoso. C’erano famigliole con figli e coppie di ogni età, con cani. Ci si salutava, come non si faceva più da tanto tempo. Ci fermavamo a guardare i tulipani, le violette e ammirare ogni multicolore bocciolo che spuntava nella giusta stagione.
Oggi, qui a Bologna, regna la paura, e specificamente quella del prossimo, di chi potrebbe trasferire inconsapevolmente la malattia. È stata imposta una legge dal titolo in apparenza benevolo: “restare a casa”, ma non dalla Regione perché la situazione si era aggravata, ma da un Governo nato in un particolare disordine, che ora nel nome dell’ordine sentenzia ordinanze a non finire. Era necessaria questa, diciamo così, “democratizzazione”? Era necessario rendere “zona rossa” tutta la penisola, e le isole? Creare un paese sotto assedio, blindato e militarizzato, che ormai spaventa non solo ogni singolo cittadino ma il resto del mondo, a cosa è servito? Siamo stati a tutti gli effetti sottoposti a una specie di legge marziale, senza la presenza massiccia di esercito e carri armati di cui gli Stati Uniti si servono nei casi necessari; ma questa scelta, in quel paese, è diritto dei singoli Stati, e solo in rare eccezioni è nazionale. Le nostre Regioni e i loro diritti, in questa occasione storica, sembrerebbero essere state scavalcate, ed ecco che oggi qui a Bologna si è finiti nella morsa del terrore.
Non ci si può non domandare in quale trappola siamo caduti. Non siamo la Cina, dove una provincia e non tutto il suo vasto territorio è stato messo al bando, che proprio per la sua forza quantitativa si rialzerà senza troppo soffrire. Siamo il paese diventato un peso, ora più di prima, per questa Europa che trema ma nella quale i paesi protagonisti sanno difendersi e proteggersi bene: che questo virus abbia scelto l’Italia perché è il Bel Paese, come facevano i turisti fino a qualche settimana fa? Siamo al bordo di un precipizio e mi rattrista osservare che la gente sia così predisposta a mettersi in fila, con un metro di distanza, ed avviarsi ammutolita verso questo terrore.
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