La Consulta valuta se estendere l'impunità dal suicidio assistito all'omicidio del consenziente: il caso può cambiare il dibattito sul fine vita
Ieri all’attenzione della Consulta c’era una questione che, sia pure indirettamente, potrebbe influenzare il dibattito sulla legge sul fine vita e soprattutto la sua attuazione in un prossimo futuro. Si tratta dell’ordinanza n. 97, emessa dal Tribunale di Firenze, e risale al 30 aprile di quest’anno.
Il tema è quello dell’omicidio del consenziente e riguarda la possibile esclusione della punibilità in chi mette in atto materialmente la volontà suicidaria di una persona che è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, è affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, e nello stesso tempo è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
La sentenza presuppone che le sue condizioni siano state verificate da una struttura pubblica del SSN, che ci sia il parere del comitato etico territorialmente competente, ma che la persona non possa concretamente procedere in modo autonomo per impossibilità fisica, per assenza di strumentazione idonea o perché le modalità di autosomministrazione disponibili non sono accettate dalla persona sulla base di una scelta motivata che non possa ritenersi irragionevole.
In altri termini, sussistono tutte quelle condizioni previste dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, che permetterebbero di rendere non punibile colui che aiuta il paziente a suicidarsi (articolo 580 cp). Ma poiché il paziente non è in grado di compiere autonomamente l’ultimo gesto che gli consentirebbe di morire, e ha bisogno di un aiuto ulteriore, questo fatto cambia la natura stessa dell’atto. Non si tratterebbe più di suicidio assistito, ma di omicidio del consenziente. Atto tuttora punito dalla legge: articolo 579 cp.
Ma se il paziente, pur avendo dalla sua parte tutte le circostanze necessarie previste dalla sentenza 242, non riuscisse a portare a termine il suo proposito e dovesse rinunciarvi per il timore che chi lo sta aiutando potrebbe essere condannato, si potrebbe parlare di discriminazione, o peggio, di palese ingiustizia?
È questo il punto cruciale su cui da ieri la Corte Costituzionale è chiamata ad esprimersi, soprattutto da chi vorrebbe che l’impunità prevista dalla sentenza in oggetto si estendesse anche al caso dell’omicidio del consenziente.
Suicidio e omicidio, purché la volontà del paziente fosse libera e lui pienamente consenziente, verrebbero ad essere equiparati. Possono suicidio ed omicidio diventare due facce di una stessa medaglia, con l’unico vincolo che il paziente sia pienamente consapevole e lo voglia con assoluta determinazione?
Ad una prima e frettolosa analisi si potrebbe ritenere che ciò che più conta è pur sempre la volontà individuale, il proposito di morire in chi considera la propria vita non più degna di essere vissuta.
Una conclusione che probabilmente coincide con la percezione di molta gente. Forse anche della maggioranza; eppure, ci sono altri elementi che andrebbero tenuti in conto e che, brevemente, in attesa della sentenza della Corte, possono diventare oggetto di una più ampia riflessione.
Il paziente, in situazioni come quelle che stiamo trattando, non decide mai d’impeto di voler morire; è sempre il frutto di una lunga riflessione, di un accumulo di frustrazioni che si ripetono, con il timore crescente di essere lasciato solo, proprio perché si è diventato un peso eccessivo per gli altri. Sorprende il fatto che il paziente chieda di ricorrere a questa sorta di omicidio del consenziente quando la sua malattia si è spinta tanto in avanti da averlo privato di ogni forma di autonomia.
Perché non lo ha fatto prima, cosa sperava e cosa è venuta meno? Forse conosceva il rischio che avrebbe fatto correre all’amico, la sua incriminazione, ma è andato avanti, ha continuato a sperare e a credere nel valore della reciproca solidarietà. Forse si sarebbe potuto investire di più proprio in questa direzione: anche a questo servono le cure palliative, che custodiscono e proteggono in una dimensione relazionale significativa e profonda.
Poi c’è il rischio degli abusi. Stiamo parlando di pazienti particolarmente fragili, dipendenti da altri, familiari o operatori, anche nei minimi gesti della loro quotidianità, in una condizione di peso che potrebbe gravare sulla vita dei familiari e di chi li accudisce quotidianamente, creando dei cortocircuiti pericolosi. Difficile districarsi tra richieste libere di chi non riesce ad esprimersi e abusi anticipatori di una morte che stenta ad arrivare.
Non sottovaluterei, sul piano psicologico di chi aiuta il paziente, la sottile distinzione tra omicidio del consenziente e suicidio assistito. Non è un caso se il Codice penale ha sempre trattato in modo diverso le due azioni. Il protagonismo del paziente, che alla fine si suicida, mette in capo alla sua coscienza la responsabilità finale dell’atto, ma nell’omicidio, per quanto l’altro sia consenziente, niente esonererà la sua coscienza dal dover ammettere: quella persona l’ho uccisa io. Non si possono rendere uguali cose che sono intrinsecamente disuguali.
D’altra parte, stiamo assistendo da tempo a una deriva culturale e valoriale che va verso il riconoscimento dell’eutanasia come opzione possibile, e dopo la depenalizzazione del suicidio assistito e dell’omicidio del consenziente, il terzo passo non può che essere la legittimazione dell’eutanasia. La Corte Costituzionale ha già bocciato in più di un’occasione il suo riconoscimento, ma l’insistenza con cui da più parti si torna a proporla fa legittimamente temere che prima o poi ci si arriverà, anche attraverso la strategia dei piccoli passi, che erodono progressivamente le coscienze, ma anche i naturali confini del diritto.
Depenalizzare l’omicidio, sia pure quello del consenziente, apre una deriva di cui è difficile immaginare quanto avanti si spingerà. Ma di una cosa non possiamo dubitare: si spingerà sempre più in avanti, fin dove lo condurrà la cultura che vuole l’uomo padrone assoluto della sua vita e della sua morte e quindi decisore ultimo, incontestato e incontestabile.
A questa cultura si può solo opporre una cultura della solidarietà, dell’amicizia leale e della fraternità, che sottragga l’uomo alla paura della sua solitudine e lo riconsegni all’esperienza umana del bisogno dell’altro e della sua disponibilità. Il valore della vita, il diritto alla vita, non è una mera affermazione di principio, aridamente sostenuta dai nemici della libertà; è piuttosto la riscoperta quotidiana che o si vive per gli altri e con gli altri o non si riesce neppure a vivere per sé stessi.
Non tocca a noi fare previsioni sull’esito del giudizio dinanzi alla Corte, ma certamente dovrà essere attentamente meditata e calibrata.
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