La crisi gravissima della Francia non deve far dimenticare che Germania e Italia hanno problemi simili anche se stanno meglio. Serve una soluzione europea
Comincia domani il settembre nero della Francia e, anche se è forte la tentazione di gioire per la sua sfortuna dopo essere stati così a lungo alla gogna, noi italiani dovremmo evitare ogni Shaudenfreude, perché i guai francesi ricadranno su gran parte dell’Europa, con una Unione Europea che assiste e non ha strumenti per rimettere in riga le maggiori economie.
Non sappiamo se il governo cadrà come ormai tutti prevedono e se mercoledì l’intera Francia si bloccherà, come vorrebbero i promotori di “Bloquons tout”, ma sappiamo che cosa è già accaduto ed è già grave.
La Francia di riffe o di raffe non ha mai rispettato la regola del 3% (il limite al deficit del bilancio pubblico) salvo qualche breve parentesi, perché comunque il debito pubblico non era preoccupante visto che aveva il rating massimo (ha perso le tre A ma comunque è ancora AA-), così otteneva esenzioni o pagava le multe e poi ricominciava come prima.
Questo atteggiamento ha reso la Francia una sorta di eccezione permanente, quell’exception culturelle che non è solo culturale perché venne introdotta nel 1993 per trovare scappatoie alle regole dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO).
Se l’Assemblea nazionale boccerà François Bayrou, sui mercati ci sarà buriana e da Parigi può partire un’onda di speculazione e instabilità che proprio non ci vuole in tempi di dazi e di imprevedibilità USA.
Forse interverrà la Bce, anche se lo “stellone” di Francoforte può non bastare perché l’Europa (l’Unione, l’area dell’euro e non solo, perché anche la Gran Bretagna è in piena convulsione politico-economica) si trova a fare i conti con le sue mancate scelte.
I tre più grandi Paesi dell’Eurolandia sono nei pasticci. La Francia ha i conti pubblici in disordine (il disavanzo al 5,7% del Pil, il debito ha raggiunto il 116% del Pil, al terzo posto dopo Grecia e Italia), cresce poco (anche lei è ormai sotto l’1%), ha una disoccupazione del 7,6% e una bilancia dei pagamenti in rosso. Non si può dire, dunque, che lo spendi e spandi abbia sostenuto lo sviluppo.
La Germania ha il bilancio pubblico in buono stato (l’allentamento dei vincoli ha portato il segno meno, ma sotto il 3%, mentre il debito pubblico è al 63,8%, entrambi i parametri rispettano il Patto di stabilità), la bilancia dei pagamenti ha un attivo del 5,3%, il secondo dopo l’Olanda e quasi il doppio dell’Eurolandia, la disoccupazione al 3,7% è vicina all’indice del pieno impiego, ma il Pil non cresce; se tutto va bene, quest’anno farà poco più di quota zero, in piena stagnazione.
L’Italia ha sul groppone un debito del 136,7% e un rating molto basso (BBB+ per Standard & Poor’s). Una politica di bilancio cauta ha consentito di portare il disavanzo al 3,6%, ciò ha ottenuto un apprezzamento dei mercati e lo spread con la Germania si è ridotto all’1,3%, poco più di quello francese, salito rapidamente negli ultimi mesi. Ma un debito di oltre 3mila miliardi costa quest’anno 88 miliardi di euro, si tratta del 3,9% del Pil sottratto allo sviluppo della produzione. Nell’ultimo anno l’indebitamento ha continuato ad aumentare anche se solo del 3,2%, meno degli altri grandi Paesi.
Per fare un confronto, la Francia con un debito superiore in quantità (3.473 miliardi) paga 73,8 miliardi di interessi (2,5% del Pil), la Germania che ha 2.800 miliardi paga 48,4 miliardi (l’1,1% del Pil). L’economia italiana cresce poco (0,5%), la disoccupazione è al 6%, la bilancia con l’estero fortunatamente è ancora in attivo anche se dell’1,2% del Pil, quindi vulnerabile ai dazi americani.
Cosa ci mostra questa carrellata di cifre? Che i tre più grandi Paesi dell’Unione sono disallineati; politiche di bilancio rigorose hanno bloccato la crescita (in Germania) o l’hanno compressa (in Italia), ma lo stesso è accaduto anche nella Francia spendacciona. Ciò sembra contraddire l’ortodossia della politica fiscale europea. Se ci allarghiamo alle isole britanniche troviamo un quadro del tutto simile.
La crescita nel Regno Unito è migliore (1,2%), ma non robusta, l’inflazione al 3,8% è doppia di quella dell’area euro, il bilancio è in deficit del 4,9%, il debito pubblico al 101,8%, la bilancia dei pagamenti in rosso del 3%. Meglio la disoccupazione (4,7%), ma le lacrime e le dimissioni di Rachel Reeves, cancelliere dello Scacchiere che custodisce la valigetta rossa del bilancio, hanno messo in fibrillazione i mercati, lo spread con la Germania è salito e la sterlina è scesa.
Brexit o non Brexit, UE o Gran Bretagna, le economie del Vecchio continente viaggiano sulle montagne russe. Mentre sull’altra sponda dell’Atlantico cominciano a vedersi i primi effetti del trumpismo sull’occupazione, persino Meta non assume più mentre a Wall Street si raffredda l’entusiasmo per Big Data e l’intelligenza artificiale che ha fatto correre la borsa.
Il G7 era nato negli anni 70 per coordinare le politiche economiche dei principali Paesi, a volte ci è riuscito a volte no. La Ue esercita sulle politiche di bilancio un controllo dei principali parametri per lo più ex post, chi li viola viene punito. La riformina introdotta consente maggiore flessibilità, ma non cambia l’impostazione di fondo.
È vero che le politiche fiscali restano nazionali, tanto più tra i Paesi del G7. Ma oggi che le regole internazionali stanno saltando e al vecchio equilibrio segue lo squilibrio, è necessario che vengano allineate le scelte del grandi Paesi, una linea ordinata se non proprio retta che metta al riparo da probabili crisi e punti decisamente alla crescita. Di fronte alla sfida di Cina e Russia nessuno può fare da solo. Nemmeno gli Stati Uniti.
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