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Home » Esteri » Medio Oriente » CRISTIANI UCCISI IN SIRIA/ “Al Sharaa non unisce, ci sono ancora soprusi sulle minoranza e il Paese è fermo”

  • Medio Oriente
  • Esteri

CRISTIANI UCCISI IN SIRIA/ “Al Sharaa non unisce, ci sono ancora soprusi sulle minoranza e il Paese è fermo”

Int. Marco Perini
Pubblicato 4 Ottobre 2025
Ahmad al-Sharaa

Ahmad al-Sharaa, autoproclamato presidente della Siria (YouTube, 2025)

In Siria la violenza è di casa: tre cristiani uccisi a Homs. Occidente e Paesi arabi aspettano di normalizzare il Medio Oriente prima di investire

L’ultimo episodio, nella provincia di Homs, parla di tre cristiani uccisi da un commando che è arrivato in moto e ha esploso 30 colpi nella loro direzione. Una vicenda dai contorni non ancora ben definiti, ma che fa il paio con altri atti di violenza nella stessa zona. È l’ennesimo segnale di come sia difficile la normalizzazione della Siria che il suo presidente Al Sharaa promette di voler portare a termine lasciandosi alle spalle la dittatura di Bashar al Assad.


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Il problema, spiega Marco Perini, regional manager di AVSI per il Medio Oriente, è che per il momento nel Paese la ricostruzione non è iniziata, tanto che molti dei profughi che erano tornati a casa dopo il crollo del regime precedente sono tornati sui loro passi. La Siria sconta il fatto che tutta l’area mediorientale vive momenti di grande tensione: fino a che non sarà pacificata, anche la ripresa del Paese non sarà facile. Le elezioni previste a metà settembre e poi rinviate probabilmente non si terranno in ogni zona del Paese e Israele ha appena bombardato nuovamente la periferia di Damasco: segnali che c’è ancora molto da fare.


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Altri tre cristiani uccisi. Nella società siriana c’è una violenza endemica nei confronti di certe minoranze?

Non lo limiterei a un problema dei cristiani. Basta ricordare cosa è successo agli alawiti e ai drusi, in mezzo ai quali c’erano anche altri cristiani. Al Sharaa non è ancora riuscito in quello che probabilmente è l’esercizio più importante e più difficile, unire il Paese, tenendo conto di tutte le richieste, le sensibilità e le incomprensioni che ci sono. Deve cercare di ridimensionare certi gruppi inserendoli in un nuovo contesto. La Siria non è più il Paese che era prima dell’8 dicembre, ma non è ancora diventata un nuovo Paese: è ancora molto frammentata e le minoranze continuano ad avere paura. La transizione non è semplice da nessuna parte, a Damasco, ad Aleppo, nelle periferie.


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Ma c’è qualche segnale che si va nella direzione di una ripresa?

Al di là delle sanzioni internazionali tolte la ricostruzione non è ricominciata. I soldi non sono arrivati, se non le briciole, mentre per come è messo il Paese ci sarebbe bisogno di fondi ingenti. Alcuni profughi stanno rientrando, ma altri, rientrati in precedenza, se ne sono tornati in Libano, in Giordania, in Iraq: il Paese è ancora distrutto, non ci sono prospettive significative per chi vive in Siria.

Perché, la gente come vive oggi?

Non c’è lavoro, non ci sono case, non ci sono né l’acqua, né l’elettricità e neanche la scuola.

Quanto pesa il problema dei profughi? Ne sono tornati a centinaia di migliaia, ma il Paese è in grado di accoglierli?

In questo momento non è in grado di accoglierli dignitosamente. Recentemente ero in un campo del Libano del sud e ho chiesto espressamente ad alcuni siriani perché non tornavano in patria: mi hanno detto che è meglio vivere sotto una tenda, con un lavoro occasionale a 15 dollari al giorno (quando il lavoro c’è) piuttosto che rientrare dove ci sono solo case distrutte.

Le promesse di sostegno alla nuova Siria fatte dalla Turchia, dai Paesi del Golfo, dall’Europa e dagli americani sono rimaste sulla carta?

Miliziani in Siria (Foto: ANSA-EPA/AHMAD FALLAHA)

Per adesso si tratta di aperture, promesse politiche, allentamenti delle sanzioni, ma per ricostruire un Paese dopo 50 anni di dittatura e 15 di guerra servono i miliardi. E quelli non ci sono.

Cosa si può dire dell’operato di Al Sharaa finora?

Dobbiamo fidarci di lui, voglio pensare che voglia veramente fare come ha detto, cioè realizzare un Paese pacifico, in cui possano convivere diverse sensibilità, in pace con i Paesi vicini, come dimostrano i tentativi di trovare un accordo con Israele. Se sosteniamo che Al Sharaa è stato un jihadista non diciamo una bugia, però in questo momento non vedo alternative.

Cosa ci dobbiamo aspettare dalle prossime elezioni, le prime dopo la caduta di Assad?

In molte zone non si terranno, perché sono ancora insicure, penso ad esempio a Sweida. In altre non ci saranno i seggi. Saranno le elezioni di un Paese che non è tornato a essere un Paese.

Di cosa ha bisogno soprattutto la Siria, quali sono le priorità?

Ha bisogno di tutto, l’elenco sarebbe infinito: occorrono non solo aiuti umanitari, ma investimenti per una ripresa socio-economica, per lo sviluppo del Paese. L’aiuto umanitario, anche se purtroppo sottofinanziato, non è più sufficiente, perché bisogna ricostruire tutto. Poi occorre la stabilizzazione regionale, dell’intero Medio Oriente: Israele ha appena bombardato la periferia di Damasco. La situazione è molto complicata, è un domino che lega le sorti della Palestina, di Israele, della Siria, dell’Iran, del Libano.

Quando arriveranno gli investimenti necessari?

Credo che per pianificare il futuro occorra normalizzare tutta l’area. Il problema non è solo la volontà politica dell’Occidente o dei Paesi del Golfo: servono i soldi. Un padre ha bisogno di un lavoro per sostenere la sua famiglia.

(Paolo Rossetti)

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