Caro direttore,
Aleggia un pesante, doppio equivoco nelle storie raccontate dal Corriere della Sera in un articolo intitolato “Bambini prima affidati e poi tolti, l’Italia dei genitori ‘usa e getta’”. La tesi di fondo, suffragata da episodi di mala-giustizia minorile, è la riduzione dei genitori affidatari a luogo di “parcheggio” temporaneo, scartati con cinica brutalità una volta rientrata l’emergenza e profilatasi all’orizzonte una coppia adottiva con requisiti apparentemente più idonei dei loro.
È pur vero che è lo stesso istituto dell’affidamento a prevedere, presto o tardi, il distacco del minore dal nucleo che fin lì ha fatto le veci di mamma e papà naturali. Ma qualora si presentasse la possibilità di adottare il minore, troppo spesso – denuncia il quotidiano di via Solferino – la scelta dei Tribunali tende a escludere la coppia affidataria, nonostante la disponibilità di questa all’adozione. Il tutto a grave danno del minore, cui si chiede un secondo distacco dopo aver subìto un primo abbandono, e di mamma e papà affidatari, che vedono reciso un rapporto costruito a prezzo di sacrificio.
Scelte ingiuste e di poco buon senso, osserva il Corsera. La soluzione proposta è tutta, ancora una volta, nelle mani del legislatore: modifica della normativa a favore dei genitori affidatari cui si concede una via preferenziale “qualora l’affidamento del minore si risolva in adozione”.
E l’equivoco dove sta? Non mi soffermo sull’ipotesi di un cambiamento legislativo, probabilmente sensato. Tantomeno nego che, in alcuni casi, le scelte dei Tribunali producano più danni che benefici. C’e una svista, però, che pesa tutta sulla natura stessa dell’affido, sulla sua “vocazione”. L’accoglienza temporanea di minori non è e non può diventare una scorciatoia per arrivare ad adottarli (equivoco di natura giuridica). Né, di conseguenza, si può pretendere che i sacrifici patiti per tirar grande il frugoletto accolto siano in qualche modo da “ripagare” per forza: gli ho voluto bene fin qua, lasciatemelo (equivoco di natura educativa e culturale). Il punto è la ragione dell’accoglienza.
In casa mia girano da sei-sette anni i miei quattro figli. Tutti accolti e tutti e quattro in affido. Con storie e famiglie di origine differenti. Con temperamento, indole, livello di attaccamento talvolta opposti. Persino nello stato di salute c’è un abisso (il più piccolo è cerebroleso grave). Non mi è ancora toccato assistere al loro rientro nel nucleo naturale; né mi è capitato di vederne adottato qualcuno.
Eppure non passa giorno in cui non tocchi con mano ciò a cui appartengono. La loro profondissima e inestirpabile origine: un altro padre, un’altra madre. Da cui hanno ricevuto quel particolare viso, quel timbro di voce, quella timidezza o quella sfrontatezza insopportabile che non hanno niente di mio. Portarseli in casa ha voluto dire accogliere tutto di loro, anche quelli a cui sono stati tolti: mamma-papà-nonni-zii-zie, che talvolta ci ritroviamo ospiti il sabato a pranzo o la domenica per una giornata intera.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO
Pian piano scopri che la frase “accompagno mia figlia da suo padre” non è roba da schizofrenici. Perché la fanciulla è ugualmente “mia” nonostante l’abbia fatta un altro, ma non è “mia” fino in fondo perché di mezzo c’è sempre un altro (e da quell’altro è destinata a tornare). Si impara, pian piano, a rinunciare al possesso (qualche traccia ti rimane sempre addosso…) e a trattare i figli accolti come il tesoro più prezioso.
Impari a non pretenderne in cambio qualcosa, perché la caparra è già lì, nella grazia che ti è data di essere padre. Padre per un tempo breve e sconosciuto. Finito il quale ci si scopre un po’ come i servi del Vangelo: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili”.
Si impara tutto questo se lo si vive per primi sulla propria pelle. Se, cioè, nella vita di chi fa accoglienza, esiste qualcuno che li tratta con un amore incondizionato. L’improvvisazione non regge. I buoni propositi ancor meno.
Presto o tardi i miei figli se ne andranno. Chi in un modo, chi in un altro. Chi per una ragione (magari priva di senso), chi per un’altra (il mio piccolo ha una aspettativa di vita molto bassa). Non mi sarò sentito un “parcheggiatore”. Né usato e poi gettato. Vivrò l’orgoglio di dire che ne sono stato il padre. E se di loro perderò le tracce, saprò che ci rivedremo – se ce lo saremo guadagnati – in paradiso.
(Cristiano Guarneri)