Aveva nove anni, Jamel, di Denver (Usa). Era bello. Da un po’ di tempo, si era accorto che gli piacevano i maschietti. Quest’estate l’aveva detto anche alla mamma. L’aveva presa bene, la mamma. Così, al rientro a scuola l’ha detto anche ai compagni. Che invece, non l’hanno presa bene affatto. Hanno cominciato a dargli addosso. Hanno cominciato a dirgli di uccidersi, che uno così non poteva vivere. E lui li ha presi in parola: la mamma l’altro giorno ha trovato in casa un piccolo cadavere.
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Di fronte a un dramma così, sono molte le riflessioni che si affacciano alla mente. Una riguarda il clima in cui viviamo, per cui è naturale per un bambino di nove anni dire “sono gay”: lo sviluppo dell’identità sessuale è una cosa delicata, può evolvere nel tempo, forse andrebbe guardato, accompagnato con più attenzione, con più rispetto. Un’altra ha a che fare con la fragilità con cui i nostri figli crescono: possibile che dopo quattro giorni — quattro giorni! — di scuola, di attacchi dei compagni, Jamel abbia ceduto così?
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Ma non mi sembra che queste considerazioni vadano al cuore della questione. Il punto decisivo mi sembra un altro. Sono reduce dal Meeting di Rimini, ho passato un sacco di tempo dentro la mostra su Giobbe, sul dolore innocente. Ho riletto la celebre, perentoria affermazione di Primo Levi: “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”. Ho scoperto — non lo sapevo, confesso l’ignoranza — che Emmanuel Carrère ha perso la fede davanti alla notizia di un bimbo di quattro anni che, per un errore durante un banale intervento chirurgico, è rimasto cieco, sordo, muto e paralitico. L'”inesprimibile spavento di un ragazzino di quattro anni che riprende coscienza nel nulla eterno”. Terribile. Davanti al dolore innocente, al dolore dei bambini, le considerazioni sul come e sul perché perdono significato. Anche papa Francesco, a un piccolo orfano rumeno che gli chiede perché lui ha avuto quella sorte, risponde che “ci sono ‘perché?’ che non hanno risposta”.
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C’è, forse, solo una possibilità. Che quel dolore sia stato preso su di sé da Dio stesso, in cima alla croce. Se un Dio non c’è, non è che il problema è risolto: il dolore rimane; solo, è più disperato. Se è vero che un Dio ha sofferto come noi, con noi, forse una possibilità di senso c’è.