Con periodicità inquietante sono portati a conoscenza della pubblica opinione episodi biografici relativi a intellettuali europei, tra i più celebrati e i più politicamente corretti, che gettano una macchia sulle loro vesti sinora immacolate. L’ultima vittima è il grande scrittore ceco Milan Kundera, accusato di avere, giovane studente nel 1950, denunciato alla polizia politica comunista e fatto arrestare un ex-pilota dell’aviazione che collaborava con gli occidentali. Non è questo il luogo per approfondire la questione. Ci basti dire che, anche se l’episodio dovesse trovare conferma, ciò non inficerebbe il grande valore artistico dell’opera di Kundera e non dovrebbe indurre a dimenticare la lotta personale dello scrittore contro il regime comunista, lotta che gli è costata l’esilio.
Ciò che ci interessa è confrontare la traiettoria biografica e intellettuale di Kundera con quella di un altro grande intellettuale ceco, Vaclav Havel, drammaturgo, già presidente prima della Cecoslovacchia e poi della Repubblica ceca dopo la caduta del comunismo. Si tratta infatti di due percorsi emblematici per l’intellighenzia europea.
Kundera si iscrive al Partito comunista cecoslovacco nel 1948 per esserne espulso nel 1950. Iscrittosi di nuovo nel 1956, partecipa alla Primavera di Praga, di cui è uno degli intellettuali più in vista. Ne 1970 viene espulso di nuovo dal partito per la sua opposizione all’invasione sovietica e lascia infine la Cecoslovacchia nel 1975 per stabilirsi definitivamente in Francia. Non fa in tempo, quindi, a partecipare al movimento di Charta ’77, di cui invece Havel è uno dei leader.
Il paragone tra i due scrittori consente di sottolineare l’esistenza di una soluzione di continuità tra tre eventi decisivi per la storia europea del Novecento, quali la Primavera di Praga da un lato e il movimento del dissenso e la Rivoluzione di velluto dall’altro. I protagonisti della Primavera sono i comunisti riformisti (quali Kundera), caratterizzati da un idealismo astratto per quanto sincero e da un comportamento ondivago e ingenuo nei confronti dei sovietici. Havel a tal proposito parla di utopismo. Il tragico fallimento della Primavera permette la maturazione di un nuovo atteggiamento, che evita le polemiche ideologiche con il regime e combatte sino in fondo e a carte scoperte per delle cose concrete. Tale atteggiamento trova formulazione in una sorta di principio, formulato per la prima volta da Havel in una lettera a Dubcek sin dal 1969: un’azione puramente morale, che non ha speranza di avere un effetto politico immediato e visibile, può col tempo essere lentamente apprezzata in modo indirettamente politico.
In altre parole, ciò che emerge a livello di consapevolezza è la presenza in ogni essere umano di qualcosa di assoluto, di assolutamente degno di rispetto, che vale la pena difendere e per cui vale la spesa combattere, senza preoccuparsi dell’esito. Qualcosa che è in gioco nelle circostanze concrete e apparentemente banali della vita quotidiana e che “si annunzia oramai in certi scrupoli, in certi sussulti”. Qui a manifestarsi è in realtà l’essere in quanto tale, qualcosa di misterioso (poiché non lo posso circoscrivere concettualmente) ma anche evidente (poiché non lo poso negare), che è ciò che c’è di più intimo all’io. E l’io stesso è suscitato da tale esperienza la quale, in quanto sussulto, scrupolo, implica una domanda, un appello. In definitiva l’io si costituisce attraverso la risposta a tale appello che avviene nella sua parola ed azione. Come dice il più grande filosofo ceco del Novecento, anche lui leader di Charta ’77 e martire della violenza totalitaria, Jan Patocka, “tutti i doveri morali sono impliciti in ciò che può essere definito il dovere dell’uomo verso se stesso”.
Armato di tale esperienza e di tali riflessioni, Havel attraversa l’esperienza del dissenso (per cui paga prezzi assai pesanti in termini personali), la quale sfocia nella crisi del regime comunista e nell’instaurazione della democrazia. Un esito, per quanto desiderato, del tutto imprevedibile. E l’esperienza dell’assoluto, di un assoluto così concreto da generare una posizione morale capace di scardinare il regime, anima anche lo Havel presidente della repubblica, il quale non nega mai la sua apertura al trascendente. Una posizione apparentemente insostenibile, invece, per il post-comunista Kundera, il cui cammino biografico e intellettuale è caratterizzato da un esito tendenzialmente nichilista, comune del resto a tanti altri intellettuali europei.
In definitiva l’esperienza del dissenso anti-totalitario ci fornisce la prospettiva di un assoluto capace di produrre effetti di liberazione sul piano politico. Si tratta di una prospettiva interessante in un momento in cui l’unica soluzione ai conflitti di valore e di istanze di origine religiosa, che caratterizzano l’agone politico contemporaneo, sembra essere quella di una neutralizzazione dello spazio pubblico.