Quest’estate ho scelto, tra le letture estive, un vecchio libro che apparteneva a mio padre. Si tratta di un testo scritto nella Spagna del secolo XI da un mistico ebreo, Bayha ibn Paqûda, dal titolo Introduzione ai doveri dei cuori. È un’opera che vuole contrastare la tendenza a una visione materialista e pragmatica della religione e sottolineare l’importanza primaria di una visione spirituale. L’uomo – dice Paqûda – è sintesi di anima e corpo e la religione propone sia precetti materiali, pratici, rivolti al corpo, che precetti spirituali, rivolti all’anima. Sono quelli che egli chiama rispettivamente doveri del corpo e doveri dell’anima, per affermare che i doveri dell’anima sono molto più numerosi e importanti di quelli del corpo. Tra essi si annoverano precetti fondamentali e difficili come “amare Dio”, “avere fiducia in Lui”, “amare il prossimo come sé stessi”, “amare lo straniero come il prossimo”.
L’edizione in possesso di mio padre è una traduzione in lingua francese opera di un celebre studioso ebreo francese, André Chouraqui, e pubblicata nel dopoguerra con l’introduzione di un altrettanto celebre pensatore cattolico francese, Jacques Maritain. Chouraqui la fece durante l’occupazione nazista della Francia, mentre era clandestino e faceva parte della resistenza. È una storia straordinaria: di giorno egli partecipava a delle azioni, la sera, al rientro, dedicava alcune ore a questo lavoro. Egli scrive nell’introduzione: «Nel corso di viaggi incessanti, tra montagne e foreste […] la meditazione dell’opera che traducevo iniziava alle discipline interiori provate dalla testimonianza dei martiri e dei santi. Bayha insegnava la lunga pazienza alle sorgenti dell’essere, dove l’unità trionfa di tutte le violenze, l’unità dell’amore più potente dei frutti amari di tante morti. Al ritorno di ogni missione ritrovavo la pagina da completare, maturata nell’azione quotidiana».
Perché ho introdotto un argomento che sembra fuori tema? Perché questa vicenda straordinaria mi ha fatto venire in mente una domanda: come è possibile affrontare una situazione drammatica, una crisi epocale, senza un alimento di spiritualità, senza una fiducia profonda nel senso dell’esistenza?
Certo, il paragone tra la crisi che noi viviamo e il dramma della Seconda guerra mondiale può apparire quasi offensivo per quest’ultimo; nonostante la nostra crisi sia contrassegnata da un deserto morale piatto e desolante che rende ancor più impellente l’esigenza di una prospettiva, di una finalità che dia senso all’esistenza. Ma quel che ha mi suggerito questa vicenda è che è impensabile affrontare una crisi senza una prospettiva spirituale. Non il mero uomo materiale – il “mero uomo di fatto”, per dirla con Husserl – può vincere una crisi, ma la persona, sintesi di materialità e spiritualità, di doveri etici e di doveri morali.
Non per captatio benevolentiae nei confronti del pubblico del Meeting citerò don Giussani, ma perché è evidente che non mi era possibile non rilevare la consonanza tra queste considerazioni e una frase di don Giussani che ho letto in una delle varie presentazioni dei temi del Meeting. E la frase è questa: «Quando la morsa di una società avversa si stringe attorno a noi fino a minacciare la vivacità di una nostra espressione, e quando una egemonia culturale e sociale tende a penetrare il cuore aizzando le già naturali incertezze, è venuto il tempo della persona». È il momento dell’autocoscienza, «una percezione chiara e amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino».
Non è forse evidente quanto tutto ciò abbia a che fare, e profondamente, con l’educazione, ovvero con l’atto più importante con cui una società si autoperpetua, con cui scrive il proprio destino?
E come può affrontarsi il tema dell’educazione se non come un problema di rapporti di persone? E come può affrontarsi una crisi educativa se non chiamando in gioco il tempo della persona, la definizione del suo destino, dei fini spirituali che individuano e guidano questo destino?
E ha senso affrontare invece questa tema e questa crisi, anziché in termini di persone, di rapporti di persone, e di fini di persone, parlando di capitale umano, concependo l’istruzione come un incremento misurabile, un “valore aggiunto” del capitale umano, magari misurabile come un’utilità marginale?
Eppure ci si vuol far credere che questo approccio economicista e formalista sia l’unico approccio razionale al problema dell’educazione. A me pare che si tratti invece di un approccio che è il contenitore di un grande e drammatico vuoto spirituale e morale, un vuoto da cui non può uscire nulla, men che mai il superamento di una crisi di prospettive.
Quel che misura questo tremendo vuoto è la tendenza che sempre più prevale in questi anni nell’insegnamento: un crescente e quasi sprezzante disinteresse per i contenuti – le tanto denigrate “conoscenze” – a favore di un interesse esclusivo per i metodi, le tecniche.
Ma – ci si chiede – per cosa esiste il processo dell’istruzione se non per trasmettere e aiutare ad acquisire con i propri mezzi (entrambe le cose!) concetti, contenuti, conoscenze, cultura, in nome di un antico e sempre valido principio, e cioè che la conoscenza è libertà? Un processo di educazione e istruzione ridotto all’applicazione di un insieme di tecniche di apprendimento è semplicemente annientato come tale.
In questi ultimi anni, assieme a mia moglie Ana Millán, ho dedicato molto del mio tempo alla scrittura di un libro appena uscito, dal titolo Pensare in matematica (Zanichelli), la cui principale ambizione è affrontare il problema difficile dell’insegnamento della matematica al livello di base elementare (e quindi delle scuole primarie), ma più in generale a introdurre chi non ne sa nulla a questa disciplina ostica e screditata perché considerata arida, difficile e repellente. La convinzione profonda che ci ha guidato è che, per risolvere le difficoltà dell’insegnamento e dell’apprendimento della matematica, la via sia quella di restituire la matematica alla cultura. Per questo, per sottolineare l’unità della conoscenza, la copertina del libro riproduce un dipinto di Botticelli in cui Venere introduce un giovane allievo al cospetto delle sette arti liberali.
La matematica non è una disciplina di calcoli pratici, aridi e noiosi quanto purtroppo necessari. È una disciplina speculativa che ha un rapporto profondo e costitutivo con la filosofia e persino con la teologia. A chi gli chiedeva perché avesse deciso di studiare matematica, un grande matematico italiano, Federigo Enriques, rispondeva: «Per un’infezione filosofica liceale».
La matematica è la scienza che si è proposta di sfidare l’infinito: “la matematica è la scienza dell’infinito”, diceva un altro grande matematico del Novecento, Hermann Weyl. Il tema dell’infinito è proprio il tema centrale del Meeting di quest’anno, che si misura con la grande inesauribile questione: come mai noi esseri finiti siamo capaci di pensare l’infinito, e fino a che punto si spinge questa intuizione dell’infinito? Uno studio profondo e non meramente pratico della matematica conduce proprio a questa domanda, in definitiva irrisolta, se non in questo senso: che la matematica è riuscita nell’impresa di manipolare l’infinito mostrando al contempo l’impossibilità di dominarlo. Per cui, essa contribuisce a farci capire come la caratteristica paradossale dell’uomo sia di intuire e pensare l’infinito pur restando irriducibilmente separato da esso, da una sua completa acquisizione.
Questa è la matematica che può suscitare interesse e passione, non certo il trucco di renderla digeribile presentandola come un insieme di ricette pratiche, utili per la vita quotidiana, per fare la dichiarazione dei redditi o calcolare percentuali. È quella squallida trovata della cosiddetta “matematica del cittadino”, che non rende la matematica più attraente, ma riesce a oscurare il senso dei suoi concetti.
Subiamo il pontificare di persone che non sanno e non capiscono nulla di matematica ma sono eruditi di una scienza – mai come oggi chi non capisce nulla di scienza abusa di questa parola –, la tecnica dell’apprendimento. In realtà, trattasi di una pseudoscienza, praticata da un esercito di esperti del nulla rivestito di metodo i quali, in un nome del primato della tecnica, distruggono l‘unico autentico motore del processo educativo: la passione e l’interesse.
Non è difficile capire perché una tendenza caratteristica delle istituzioni educative sia il progressivo accantonamento delle persone dotate di cultura e conoscenza a favore dei cosiddetti “esperti”. È il fenomeno che è stato definito col termine di dittatura degli esperti, o dittatura della tecnocrazia. Sembra che ormai l’istruzione sia di pertinenza esclusiva degli “economisti della scuola”, degli statistici o di categorie che sembrano inventate nel contesto di una parodia, come quella degli “esperti di gestione dei sistemi complessi”.
Non si sa in nome di quale legge naturale il ricorso agli “esperti”, alle statistiche, ai test darebbe la garanzia di conseguire il mito dei tempi nostri, l’oggettività. Ma è sotto gli occhi di tutti a quali risultati sgangherati, per non dire efferati, abbia condotto l’uso dei test, delle statistiche, delle cosiddette “misurazioni oggettive”: autentici affronti all’oggettività. Basti pensare al concorso per dirigenti scolastici, alle prove a quiz per il TFA (Tirocinio Formativo Attivo), a certi test Invalsi, ai test di ammissione a certi corsi di laurea universitari, dati in gestione a ditte private che, non si sa perché, offrirebbero garanzie di serietà e rigore. Nei confronti degli insegnanti – che, bene o male, nella maggior parte dei casi, hanno superato qualche selezione – si nutre una diffidenza sconfinata, mentre gli sconosciuti e mai valutati esperti di società private autocostituitesi per preparare test sarebbero a priori persone serie e competenti.
Si guardi a quel che sta accadendo all’università. La difficoltà di valutare nel merito e nei contenuti – l’unico modo serio di procedere – un numero enorme e crescente di testi scientifici ha indotto a ricorrere a procedure automatiche, in particolare al conteggio del numero di citazioni e a una serie di parametri collegati che, si pretende, offrirebbero garanzie di rigore e di oggettività che non offrirebbe il primo approccio. È la cosiddetta “bibliometria”, che è oggetto di critiche sempre più forti e sviluppate da personalità e istituzioni di primo piano – come la International Mathematical Union e l’Institute of Mathematical Statistics – e che ha condotto in Australia a proscriverne l’uso. Ad ogni modo, negli USA – dove la bibliometria si è sviluppata, al pari delle critiche odierne – essendo il sistema universitario e della ricerca privatistico, c’è chi ricorre a questi metodi, e in versioni disparate, c’è chi non vi ricorre. Invece, in Italia, abbiamo realizzato l’exploit unico al mondo di imporre una bibliometria di stato sotto il controllo di sette personaggi di nomina politica che costituiscono il direttivo di un nuovo onnipotente organismo, l’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca).
A Ferragosto l’Anvur ha comunicato le “mediane”, ovvero i numeri al disotto dei quali un docente non potrà essere candidato ai concorsi per l’abilitazione nazionale e un candidato non potrà fare domanda. Sarebbe lungo dettagliare tutti i risultati folli prodotti dalla bibliometria di stato all’italiana. Mi limiterò a citarne uno che riguarda me come i miei colleghi storici della matematica, tutti esclusi a priori dalla possibilità di essere commissari o candidati. Siamo tutti somari? Gli autentici somari sono altrove. La spiegazione è che le nostre numerose e prestigiose pubblicazioni non valgono nulla per il semplice motivo che, trattandosi per lo più di libri, articoli in volume ed edizioni critiche, non sono indicizzate dalla ditta privata (Thomson Reuters) al cui database l’Anvur si riferisce per calcolare i suoi parametri, e che considera soltanto articoli su certe riviste, e ignora tutto ciò che sa vagamente di umanistico.
Che dire? Simili esiti non sono certo una vergogna per chi ne è la vittima ma per chi ha escogitato un simile demenziale marchingegno. E soprattutto: soltanto in un paese privo di cultura liberale e devastato da vent’anni di fascismo seguiti da qualche decennio di un’altra egemonia culturale totalitaria, quella comunista, poteva capitare di assoggettare la ricerca a un controllo di stato che ha poche analogie storiche. In Italia, burocrazia ministeriale e dittatura degli esperti del nulla stanno producendo forme di dirigismo statalista mostruose che nulla hanno a che vedere – e anzi sono in piena contraddizione – con l’idea classica dell’istruzione pubblica.
Vorrei concludere con un’osservazione che può sembrare, a prima vista, fuori tema. La riassumerei nell’avvertimento: difendiamoci dal materialismo. Sia ben chiaro: questo non vuol dire che non sia legittimo essere e dirsi materialisti, né di dirimere questioni filosofiche che tengono in affanno l’umanità da più di due millenni. Ma, per l’appunto, quel che è inammissibile è che si dia sempre più per scontato che, per essere considerati razionali, “scientifici”, in una parola rispettabili, occorra essere materialisti. Ricordo le parole di don Giussani circa le egemonie culturali e sociali che tendono a penetrare il cuore aizzando le già naturali incertezze.
Oggi, l’egemonia culturale del materialismo tende non solo ad aizzare le naturali incertezze ma a far sentire come “vergognosa” qualsiasi posizione diversa, in particolare una visione spiritualista, al punto di identificare scientificità con materialismo e a far assurgere il materialismo a filosofia di stato. Si pensi alla crescente insistenza a fare delle neuroscienze un sostituto della filosofia e persino della teologia, quando si identifica il senso della trascendenza con la presenza di certe conformazioni neuronali e, in tal modo, si distrugge la religiosità riducendola a un fatto materiale contingente. Nel campo educativo questo si manifesta nella pretesa di voler ridurre tutto a questioni di neuroscienze, di neuroni e di sinapsi. Il massimo rispetto per le neuroscienze non toglie la profonda verità di quanto diceva il celebre filosofo Paul Ricoeur, quando osservava che è interessantissimo studiare cosa succede nel cervello quando penso, ma che il cervello è oggetto di scienza e non soggetto, e che per pensare non occorre neppure sapere di avere un cervello. Aristotele, sant’Agostino, Maimonide, Galileo o Newton hanno pensato benissimo – molto meglio e più profondamente di tanti contemporanei – senza avere la minima idea di cosa fosse un neurone o una sinapsi.
Risolvere i problemi dell’insegnamento con le neuroscienze? Basta osservare attentamente la povertà, per non dire la miseria, dei tentativi in questa direzione per capire che si tratta soltanto di una pretesa ideologica che ha un solo effetto: prosciugare il terreno di un approccio di contenuto e di senso, sviando l’attenzione di molti (suggestionati dalle mode e timorosi di essere considerati retrogradi) verso perline luccicanti quanto prive di valore.
Una delle manifestazioni deteriori di questo materialismo è quella tendenza che potremmo chiamare la medicalizzazione dell’istruzione e che si basa sulla riduzione di ogni difficoltà di apprendimento a disturbi funzionali, a una condizione di “anormalità”, da trattare non con strategie educative bensì con strumenti psicologici, con supporti materiali e persino decretando per alcuni (troppi) soggetti la loro minorità strutturale e percorsi di apprendimento semplificati e ridotti.
Non si tratta certo di minimizzare l’importanza di curare le forme di disabilità. Ma è un affronto alla disabilità e ai veri disabili ampliare la platea dei “disturbati” a percentuali incredibili. E tutto questo inventando disturbi che, a differenza della dislessia, non hanno alcun serio fondamento, come la “discalculia”, che viene diagnosticata e trattata per lo più da persone che non hanno alcuna seria conoscenza della matematica, e spesso anzi ne hanno idee distorte, alimentate da pseudomatematici compiacenti.
In fin dei conti, quello cui si assiste con l’espansione esponenziale delle diagnosi di questi “disturbi” è una vera e propria fuga dalle responsabilità, una resa, la rinuncia ad affrontare con l’amore e la competenza difficoltà che possono essere superate, e che quantomeno vanno affrontate fino in fondo sul terreno proprio dell’istruzione prima di arrendersi a trattarle come disturbi o malattie strutturali.
In conclusione, nel campo educativo occorre rimettere al centro conoscenza, interesse, passione, ricerca del senso. Inoltre, occorre rimettere al centro il rapporto tra maestro e allievo. L’esigenza di un insegnamento che fornisca allo studente gli strumenti per procedere con le proprie gambe, che non sia nozionistico, che non sia meramente “trasmissivo” è indiscutibile. Ma è inaccettabile che questo venga pensato come l’esigenza di marginalizzare la figura dell’insegnante, ridotto a “facilitatore”, a una sorta di “animatore” del processo autonomo di apprendimento. L’insegnamento vero è anche trasmissione di conoscenze e metodi da parte di un maestro. Anche su questo voglio ricordare le belle pagine di don Giussani sull’educazione per testimonianza. Come egli osserva, senza un “testimone” che, per la sua autorevolezza e capacità ispiri fiducia, non si va da nessuna parte, si resta confinati in un metro quadrato. È ridicolo pensare di poter ricostruire da soli la conoscenza e verificare tutto. Non ho mai fatto né mai farò l’esperienza di Michelson-Morley, ma “credo” nella sua validità sulla base di testimonianze attendibili. Non potrei certo rifare da solo tutto il percorso della fisica.
Quindi, l’educazione è, in primo luogo, testimonianza. E come può esistere una testimonianza priva di contenuti e di senso e ridotta a mera tecnica e metodo?