LETTURE/ Natale, Betlemme contro Babele

- Uberto Motta

Oggi la secolare attesa di ogni uomo si è colmata per un'iniziativa sorprendente della fonte della vita; alla ricerca dei sapienti si è sostituito un incontro. UBERTO MOTTA

gaudi_sagrada_nativitaR439 Antoni Gaudì, Sagrada Familia (Foto dal web)

Ringraziamo per avere ancora una volta la possibilità di fare memoria di ciò di cui, ogni giorno, ci è consentito fare liberamente esperienza. La secolare attesa di ogni uomo si è colmata per un’iniziativa sorprendente della fonte della vita, e alla ricerca profetica dei sapienti si è sostituita la tenera e umile circostanza di un incontro. Il capitolo 8 del Deuteronomio invita a leggere il cammino della vita, quello dei magi e quello dei pastori, quello di tutti gli uomini che ogni giorno attraversano i deserti, reali o metaforici, della terra, come una prova, come un’occasione di verifica della nostra struttura bisognosa, perché soltanto dalla consapevolezza della propria fame e sete di verità, di gioia, di compimento, derivano l’energia e la disponibilità ad accogliere quanto ci è donato, e che l’umanità, da sé, non può che sognare o desiderare. 

La logica di Betlemme è alternativa a quella di Babele. In Genesi 11 leggiamo: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. La solitudine e la paura mettono l’individuo sulla difensiva; innescano istintivamente un desiderio di protezione, affermazione e prevaricazione, di cui la torre è rappresentazione simbolica. All’opposto, il figlio di Dio è stato deposto “in una mangiatoia” (Lc 2,7) per “abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14), come annuncio di una pienezza di grazia e verità per tutti, come luce che illumina ogni uomo di buona volontà. 

In questo senso abbiamo bisogno di essere soccorsi ed educati, per disporci in modo conveniente: la volontà è buona — scrive san Paolo nella II lettera ai Corinzi — quando è pronta e costante, ricca di zelo nel perseguire la carità e non la gelosia, l’uguaglianza e non la divisione. La parabola di Lc 12,35-48 è una guida preziosa dentro la dimensione liturgica dell’avvento: l’attesa richiede fedeltà e prontezza, forza e vigilanza, cioè il superamento dei meschini orizzonti tracciati dalla propria volontà, per aprirsi a un progetto, a una volontà, più grandi. 

Natale è il pane del cielo sulla tavola di ogni uomo del deserto. “Sono disceso dal cielo — dice Gesù in Gv 6 — per fare non la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato […]. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna”. Più di tutti Paolo di Tarso ha recepito e sviluppato questa indicazione: il cristiano non annuncia se stesso, ma la luce splendente nelle tenebre (2Cor 4,1-6) che accende la sua mente e il suo cuore. Proprio perché testimone e servitore di ciò che ha visto, non ha motivo di temere, non ha un disegno proprio da custodire o difendere. 

Non è più il tempo del pianto o del cruccio, poiché “il Signore aspetta con fiducia per farci grazia” (Is 30,18). La nostra attesa è legittimata e radicata nella Sua attesa, che dalla grotta interpella reiteratamente la nostra intelligenza. Alessandro Manzoni  ha espresso con straordinaria icasticità la forza di questa iniziativa misericordiosa che ci sottrae all’orizzonte della nostra miseria: “Qual era mai persona / che al Santo inaccessibile / potesse dir: perdona?” (Il Natale, vv. 23-25). Là dove era uno sforzo vano, ora si dischiude la possibilità di un rapporto personale, per effetto del primato — in Dio — dell’amore. Tocca all’uomo di dire sì a simile offerta. Eppure proprio Manzoni registra la fatica d’un tale assenso, che obbliga a rivedere ogni criterio e metro di giudizio, fino a riconoscere il nostro re incarnato in una stalla. È il traguardo verso cui Natale ci chiama e ci conduce, ed è l’unica preghiera che occorre: per rinunciare a sé e lasciarsi ferire dall’annuncio d’un Dio che, anziché nascondersi, si manifesta nella polvere dell’ultimo. Un Dio che, rivelandosi, si nasconde agli occhi dei superbi e dei potenti sui troni, non a quelli degli affamati (Lc 1, 51-52).







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