Fra i grandi papi che la Chiesa ha avuto in dono nell’ultimo secolo si staglia con evidenza crescente la figura di Paolo VI: il papa che ha condotto a termine il concilio Vaticano II e ha retto il timone della barca di Pietro nei difficili, tormentati anni delle profonde trasformazioni che investirono, di conseguenza, la cattolicità del mondo intero, generando crisi e smarrimenti diffusi insieme a nuove sfide e a promettenti sviluppi in senso originale.
Si può dire che è stato il papa dell’ingresso nella modernità più matura. In modo esemplare, Paolo VI si è cimentato in prima persona nel compito ardito di ripensare il contenuto della fede cristiana a partire dalla coscienza e dal contesto di vita dell’uomo contemporaneo. Non per addomesticare e ridurre la radicalità delle pretese del senso religioso, accostate in tutta l’ampiezza delle loro dimensioni, ma per riguadagnare la verità della dottrina in quanto risposta affascinante e persuasiva alle domande dell’uomo concreto, in carne e ossa. Sporgendosi dalla purezza intellettuale di un sistema teologico prefabbricato, ordinato in una griglia inossidabile di pensiero aderente alle strutture oggettive di un cosmo sacralizzato, l’accento si è spostato sul fermento lievitante della libertà dell’io, chiamato a prendere posizione davanti ai dilemmi del proprio essere gettato nel mondo, alla ricerca appassionata di una salvezza non escatologicamente spiritualista, ma integralmente globale, capace di redimere il tutto dell’uomo e di restituire un senso compiuto a ogni implicazione della sua esistenza.
La fecondità di questa ricentratura dello sguardo cristiano a partire dal primato della persona vivente traspare in modo inequivocabile anche dalle poche righe del frammento di meditazione su Dio solo di recente recuperato negli archivi di Concesio che custodiscono una porzione significativa delle carte lasciate dal pontefice beatificato da papa Francesco nel 2014. Il testo è stato fatto conoscere nell’ultimo numero del notiziario dell’Istituto Paolo VI, affiancandogli il commento del gesuita Nicolas Steeves, e il quotidiano Avvenire lo ha ripubblicato lo scorso 6 agosto, a 39 anni di distanza dalla morte di papa Montini.
Il punto di forza della prospettiva di Paolo VI emerge subito all’attacco degli appunti autografi delle due paginette, purtroppo prive di data, a cui sono affidate le note sintetiche che solo ora possiamo gustare. Parlando da uomo moderno che però ritrova, nello stesso tempo, tutta l’autenticità coinvolgente del fresco linguaggio originario dei Padri della Chiesa, in particolare di Agostino, Montini accosta la parola superimpegnativa del titolo (“Dio”, appunto) al nostro terrestremente umano “desiderio”. La realtà messa in gioco non è quella dei massimi princìpi metafisici, ma la proiezione verso l’assoluto del bisogno che si annida nel cuore di ognuno: si parte da una radicale mancanza, da un vuoto che reclama di essere riempito, e questo stato di indigenza è il “desiderio comune”, la mendicanza esistenzialmente condivisa, concreta, umile e carnale, “delle nostre povere anime, tormentate dai problemi religiosi propri della mentalità moderna”.
Sullo sfondo, si agita il dramma di una sete umana che non può accontentarsi di rimedi consolatòri o elusive risposte parziali. Di fronte al bisogno del tutto, solo il Tutto può corrispondere in modo adeguato. Ma il Dio eterno ancorato alla promessa di colmare l’attesa infinita dell’uomo insoddisfatto, che si scopre fragile e inquieto di fronte alla voragine del suo limite, non è la materia di una mente solo pensante. La res cogitans dei filosofi del passato contiene in sé il bisogno insopprimibile di approdare, scrive ancora Paolo VI, all'”esperienza diretta” di ciò a cui rimanda. La prima forma del desiderio umano è, infatti, quella di arrivare, “se non a vederlo”, a “capire” Dio, a “sentirlo”, a farne il termine di una relazione paragonata a qualcosa di ancora più profondo della percezione sensoriale; qualcosa che si annida nel mistero del profondo, che unisce l’io al Tu che gli ha donato la vita e lo sostiene nell’essere. L’analogia suggerita è quella con il cervo del Salmo 41, che “anela ai corsi d’acqua” come “l’anima mia anela a te, o Dio”: Sitivit in Te anima mea…, cioè “l’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…” (Ps. 41,3).
Ovviamente, il senso del discorso dipende da quale contenuto si dà alla parola “anima”: un conto è pensarla secondo gli schemi di un dualismo più gnostico che cristiano, un conto concepirla come il principio in cui si condensa l’essenza della persona umana. Qui “anima” fa rima con spirito consapevole di una coscienza incarnata, e riporta al centro stesso dell’io.
L’io dell’uomo mendicante e bisognoso ha anche una seconda risorsa a cui aggrapparsi per diradare la nebbia della lontananza che lo tiene segregato dall’evidenza sperimentabile di Dio: può ripiegare sulla “prova esteriore” che consiste nell’attendersi come risposta da parte di Dio “qualche segno miracoloso, qualche indizio prodigioso della sua azione onnipotente o della sua amorosa assistenza”. Ma la straordinarietà stupefacente del Dio che trafigge lo schermo opaco delle nuvole del cielo e manifesta agli uomini in modo imperioso la sua grandezza insuperabile è una eccezione che non si può pretendere come via privilegiata. Alle prove “esteriori”, anche l’uomo moderno deve continuare a premettere quelle “interiori”: più delicate, a volte indecifrabili, come un sussurro appena accennato, che però sono meglio in grado di strappare il consenso della libera adesione della volontà, rispettata in tutta la sua dignità autonoma.
La prova suprema che può introdurre nell’esperienza viva di Dio non può comunque essere che quella dell’amore, annota papa Montini. Di nuovo, sapienza patristica e immersione nella ricchezza del patrimonio biblico-liturgico si fondono nel riproporre d’impulso la grande via maestra dell’ascesi cristiana di ogni tempo: “L’amore del prossimo e poi l’amore di Dio possono dare qualche felice e sufficiente risposta al primo desiderio: chi ama sente, chi ama sa, chi ama gode di Dio; per via di amore si può avere quella certezza nuova che rende sicura e fidente l’anima, lieta di camminare nell’ombra della notte presente verso la luce futura”.
Il corsivo che sottolinea l’oscurità del teatro in cui può cominciare a farsi spazio un inizio di beatitudine anticipata nella realtà del “presente” è un’aggiunta mia, per enfatizzare la lucida modernità del linguaggio religioso di papa Montini. Non ci si limita a riciclare le fonti autorevoli. I luoghi comuni delle autorità antiche sono reinterpretati attraversandoli con la lama tagliente di una acuta sensibilità realistica. L’esperienza dell’amore immette, sì, dentro le viscere profonde del mistero divino che ha fatto le cose e guida il destino del mondo. Ma nulla è ovvio e scontato in questo paesaggio spalancato dall’immersione nel cuore di Dio-carità: tutto passa attraverso le prove che generano dolore e possono lasciare nello scandalo del dubbio o di un disagio irrisolto. La percezione della presenza amica di Dio non è spontaneamente ingenua: deve essere messa a fuoco varcando lo spessore del negativo che imprigiona la creatura, la divide dai propri simili e oscura la realtà luminosa del legame con il mondo del soprannaturale.
Per ristabilire l’unità del rapporto con la nostra origine viene così in soccorso un altro strumento formidabile che, nella visione di Paolo VI, può “placare” la seconda forma del desiderio umano: quella della certificazione straordinaria, che mette direttamente l’uomo davanti alla potenza della grandezza amorosa di Dio, abbattendo i muri di separazione con il risparmio di scorciatoie facilitate. Questo secondo pilastro di sostegno del senso religioso dell’uomo è la “parola di Cristo”: Dio che si rivela rendendosi incontrabile da parte dell’io umano, non però con l’automatismo di una trasparenza totale, immediatamente evidente, ma sempre “chiedendo un atto profondo di fede”. Dio ha amato a tal punto l’uomo, si potrebbe chiosare, da non restare superbamente in attesa degli affannosi e impacciati approcci di quest’ultimo dalle infime bassezze della vicenda storica. Ha preso lui stesso l’iniziativa, uscendo dal suo “nascondimento” inaccessibile, parlando attraverso i segni, lasciando indizi eloquenti sulle cui tracce poter annodare un rapporto sicuro con il totalmente Altro: che si è fatto carne e ora abita in mezzo a noi.
“Beati coloro che avranno creduto — conclude papa Montini — senza aver visto. E questa adesione alla parola di Cristo conforta il pensiero a guardare con occhio ammirato le cose note per esperienza naturale e per conoscenza normale; e a trovarle tutte immensamente eloquenti e indicative, probative anzi, del Dio vivo, nascosto e presente”.