Come rappresentare la Resurrezione? Come dare immagine ad un accaduto che nessuno ha visto nel momento del suo accadere? Nell’esperienza di un artista, da sempre, deve essere come un salto nel vuoto: o ci si rifugia nella convenzionalità di un immaginario semplice o, se ci si stacca da lì, il rischio è sempre quello della visionarietà. Nascono capolavori, come quello di Tiziano nel polittico Averoldi a Brescia, un Cristo Olimpico, o come quello di Mathias Grünewald all’altare di Issenheim a Colmar, un Cristo come entità luminosa; tuttavia si capisce che gli artisti troppe volte sono costretti a mettere dosi di “invenzione”, a rifugiarsi negli “effetti speciali”. Sono in un certo senso giustamente in soggezione davanti alla grandezza misteriosa di quell’accaduto.
Donatello, il grande Donatello, però fa eccezione. Venne chiamato a rappresentare la Resurrezione a fine carriera, una volta tornato a Firenze dopo il lungo soggiorno padovano, in uno dei due pulpiti della Basilica di San Lorenzo, la basilica dei Medici. Donatello a San Lorenzo aveva già lavorato 30 anni prima, nella Sagrestia vecchia progettata da Brunelleschi, realizzando le straordinarie porte bronzee con gli apostoli che discutono e a volte sembrano azzuffarsi tra di loro. Fu un lavoro che gli procurò l’ostracismo di Brunelleschi, indispettito da quel disordine di vita portato dentro lo straordinario equilibrio della sua architettura.
Ora Brunelleschi era morto da 15 anni. E Donatello si poteva sentire libero di essere se stesso, anche dovendo affrontare un soggetto “impossibile” come la Resurrezione. Essere se stesso voleva dire poter rinunciare alle buone maniere. Per questo la sua narrazione rinuncia a qualsiasi accento edulcorato. È una Resurrezione concitata, con un andamento drammatico che corre lungo i lati del pulpito. I testimoni sono spiazzati dall’accaduto: le donne che arrivano al sepolcro sembrano traballare davanti all’evidenza e all’annuncio dell’angelo. Hanno il velo che scende sugli occhi, come se fossero delle clandestine. Una di loro s’attacca alla colonna per non cadere dallo sgomento. “Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra”, narra del resto Luca. “Hanno portato via il corpo del mio Signore non so dove lo hanno posto”, dice invece Maria di Magdala nel Vangelo di Giovanni. Al di là del sepolcro i soldati più che dormire sembrano sfiniti da una battaglia, che li ha sfiancati, se non peggio. Donatello intercetta tutto lo stupore, ma anche l’umanissima paura di quell’istante, davanti ad un fatto che non viene ancora compreso nei suoi contorni e nella sua portata.
Donatello inoltre non aggira il cuore dell’accaduto, prova ad affrontarlo in questo suo “film di bronzo” del pulpito fiorentino. Si vede Cristo, anche lui schiacciato dentro lo spazio angusto destinato a questa narrazione. Non ha nulla di etereo e non ha spazio per spiccare nessun volo. Tiene un piede sul sepolcro e lo stendardo nel braccio. Attorno a sé ha uno scenario da battaglia. Ma la scelta inaudita e quasi irriverente di Donatello sta nel modo con cui immagina il volto del Signore: così terreno che più terreno non si può. Il mantello che ne copre la fronte, ha gli occhi quasi socchiusi, la bocca semiaperta per prendere un respiro. È un vero ritorno in vita, che vien da paragonare alla fatica a volte furiosa di un parto. Donatello è un genio poco educato, per lui la Resurrezione non è certo un colpo di magia. Per questo quanto di vero e soprattutto di “vivo” c’è in questo suo Cristo risorto e in ciò che lo circonda…