L’arcivescovo di Homs racconta la vita quotidiana in Siria: l’Occidente toglie le sanzioni ma la gente ha fame, è disperata. Occorre un piano di aiuti serio

L’Occidente toglie le sanzioni alla Siria, ma, prima di vedere la luce in fondo al tunnel, prima di ricostruire il Paese, c’è la gente da sfamare, da togliere da una povertà disperante, che fa venire solo voglia di fuggire. La maggior parte delle persone, racconta Jacques Mourad, arcivescovo di Homs, è affamata, e la comunità internazionale dovrebbe pensare a un piano di aiuti come quello che si auspica per Gaza.



Intanto, i rumors dicono che la Siria potrebbe addirittura essere chiamata a ospitare 800 mila palestinesi espulsi da Gaza. Una soluzione di cui non si parla ufficialmente, ma che il Paese non potrebbe sopportare. E neanche gli attuali abitanti della Striscia.

L’ISIS si è fatta sentire nella provincia meridionale di Suwayda con un attentato. Qual è la situazione in Siria dal punto di vista della sicurezza?



In generale, a Homs, Hama, Aleppo, Damasco, non ho sentito parlare di atti di violenza. Nelle ultime settimane, la situazione è tranquilla, migliorata rispetto a prima. Sembra che quelli di HTS si siano un po’ calmati.

Anche i rapporti istituzionali con loro si stanno normalizzando?

Continuano gli incontri, e i loro discorsi sono positivi, inducono alla speranza. Chiedono di avere pazienza in attesa di un futuro migliore, soprattutto ora che si prospettano tante opportunità e occasioni dal punto di vista economico dopo l’annuncio di Trump della revoca delle sanzioni. Personalmente, penso che questo aiuti molto a garantire la sicurezza del Paese: se tutti si occupano dello sviluppo economico, elaborando progetti e cercando i soldi per finanziarli, dimenticano tutto il resto, sono impegnati in queste attività e non a compiere atti di violenza.



Ma la vita della gente comune è già cambiata in qualche cosa? È già migliorata oppure no?

No. La povertà c’è sempre e aumenta. E la gente ha paura. L’unica novità è che sono molto diminuite le uccisioni, i rapimenti. L’umore della gente è sempre lo stesso, come la povertà.

Mentre si attende il rilancio dell’economia e l’avvio di progetti per i quali occorrerà tempo, come si possono aiutare le persone a sopravvivere? C’è bisogno di iniziative più decise da parte della comunità internazionale?

Le persone vanno aiutate ad affrontare la loro vita quotidiana, soprattutto per il cibo. Bisogna venire in soccorso, in particolare, ai malati e alla gente che torna dai campi profughi, dal Libano, da Idlib, dalla Turchia. Arrivano e trovano le loro case distrutte. A loro occorre un aiuto almeno per restaurare qualcosa e avere un riparo per vivere. Il problema è che, a volte, reagiscono in modo molto violento nei confronti dei vicini, delle persone del quartiere, frustrati dal fatto che, dopo aver vissuto nei campi profughi, si ritrovano in questa situazione. La maggior parte di loro torna perché non ha più soldi, perché nei luoghi in cui si erano rifugiati non ricevono più sostegno. Arrivano senza niente e vedono le loro abitazioni devastate: una sofferenza che si aggiunge alle altre sofferenze che hanno patito.

Gli USA (e gli europei) hanno tolto le sanzioni, ma qualcuno sostiene che, in cambio, la Siria potrebbe accogliere 800mila palestinesi che arrivano da Gaza. È questo il prezzo che dovrà pagare il Paese per rilanciarsi?

Non ho sentito né letto niente di ufficiale sulla possibilità che arrivino i palestinesi in Siria, ma le voci sono arrivate anche a me: ne ho sentito parlare. Se questo è il prezzo da pagare per ottenere la pace con Israele, devo dire che si tratta di un pagamento ingiusto. La Siria oggi è un Paese debole, la responsabilità non sarebbe solo sua, ma anche della comunità internazionale, che accetterebbe di cacciare i palestinesi dalla loro terra, dalle loro case. E questo è veramente insopportabile. Non voglio giudicare adesso, perché bisogna vedere se questa ipotesi si concretizza; tuttavia, bisogna essere consapevoli di cosa significa prendere certe posizioni.

La comunità cristiana come sta vivendo questo momento? Prevale ancora il desiderio di lasciare il Paese?

L’atmosfera generale dei cristiani è sempre dolorosa: la povertà è un virus che divora. Il futuro non è chiaro, e la gente è disperata: vivono nella paura, di nascosto, in silenzio. Cercano anche di scappare di nascosto. La situazione non è la stessa in tutte le zone del Paese. Nel Nord-Est, nella regione di Jazira, la gente, appena ha la possibilità di fuggire, se ne va senza pensarci su due volte. Succede anche nelle altre zone, ma un po’ meno. Alcune persone sono comunque attaccate al loro Paese, al territorio, all’identità cristiana. E resistono. Una speranza che mantengono in virtù della loro fede.

Si parla giustamente della necessità di portare aiuti umanitari a Gaza, ma bisognerebbe pensare a un piano dello stesso genere anche per la Siria?

Certo. L’ufficio per gli aiuti umanitari della nostra diocesi incontra tanta gente: vengono ogni giorno per raccontare le loro situazioni, le loro storie. Sappiamo esattamente com’è la situazione, perché siamo vicini a loro ogni giorno. Per questo posso dire che la maggior parte del popolo siriano è davvero affamata e assetata. Se non cambierà niente entro l’inverno, la gente morirà di freddo. Noi, comunque, viviamo nella speranza del futuro.

(Paolo Rossetti)

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