Intesa Sanpaolo stima l’impatto dei dazi sull’agroalimentare italiano: sulla carta perdita di un miliardo. Le imprese intanto guardano già all’Est Europa
Secondo una stima elaborata da Intesa Sanpaolo, la perdita potenziale per il made in Italy potrebbe essere di un miliardo, anche se in realtà si tratta di una cifra che potrebbe valere solo sulla carta, perché la maggior parte dei prodotti agroalimentari che finiscono sulle tavole americane sono di alta qualità. E chi è già disposto a spendere un po’ di più, alla fine risentirebbe meno dell’aumento dei prezzi dovuto all’imposizione di dazi al 20% sui prodotti UE, decisa da Donald Trump.
Le aziende italiane, spiega Stefania Trenti, responsabile Industry & Local Economies Research di Intesa Sanpaolo, stanno adeguandosi alla situazione e lo fanno iniziando a puntare su altri mercati, alternativi al pur importantissimo mercato a stelle e strisce, a cominciare da quelli dell’Est europeo.
Ma i nostri imprenditori potrebbero cercare di rivedere anche i loro listini, per scaricare solo in parte sui clienti l’inevitabile aumento dei prezzi dovuto alle tariffe applicate ai prodotti importati. In occasione di Vinitaly, che si sta svolgendo a Verona, la Direzione Agribusiness di Intesa Sanpaolo ha organizzato l’incontro “Governare l’incertezza. Strategie per il futuro dell’agroalimentare”, cercando di offrire alle imprese una visione strategica e strumenti pratici nella gestione dei rischi.
Che cosa significano per l’agroalimentare italiano i dazi americani, in particolare per il vino?
Già prima del 2 aprile abbiamo elaborato delle stime basate sull’elasticità al prezzo delle importazioni italiane e americane, prendendo in considerazione circa 5.000 voci doganali. I risultati ci dicono che i dazi potrebbero comportare una perdita potenziale di circa un miliardo di euro di esportazioni italiane, di cui un terzo relative al vino, quindi intorno ai 330 milioni di euro: il vino è sicuramente il comparto del made in Italy agroalimentare che esporta di più e ha una forte presenza negli Stati Uniti.
Perché si parla di impatto potenziale, sulla carta?
In realtà, non sappiamo come potrà reagire il consumatore americano a fronte di un eventuale incremento di prezzo pari a 20%. La reazione dipenderà anche dal fatto che, tendenzialmente, l’esportazione italiana di prodotti agroalimentari, incluso il vino, a parte alcune eccezioni come i vini frizzanti, è posizionata sulla fascia alta della gamma qualitativa. Banalizzando, potremmo dire che, se anche questo tipo di prodotti costassero un po’ di più, potrebbero continuare a comprarli.
Come stanno reagendo le aziende ai provvedimenti di Trump?
Le imprese italiane hanno la possibilità di recuperare su altri mercati. Per l’offerta made in Italy dell’agroalimentare, ci sono mercati interessantissimi, anche vicini, su cui l’Italia non ha spinto più di tanto negli ultimi anni, anche perché c’era comunque un mercato americano che trainava moltissimo e che valeva la pena sfruttare. Sto pensando a Paesi appartenenti alla UE, ma nell’Est dell’Europa, nei quali le nostre quote di mercato non sono elevate. Lì abbiamo molti spazi di crescita: sono mercati anche più semplici da raggiungere per le piccole e medie imprese italiane, molto interessanti e con molta meno burocrazia.
C’è la possibilità di raggiungere anche i Paesi extraeuropei?
In generale, sono sicuramente mercati molto importanti per il made in Italy, ma, se pensiamo all’agroalimentare nello specifico, a volte sono anche più complessi. In un mercato come l’India, per esempio, che ha in assoluto il più elevato potenziale al mondo di crescita, se non altro per un discorso di popolazione, bisogna ancora creare le condizioni culturali per proporre la nostra offerta made in Italy. Vengono consumati pochissimi alcolici. Qualcuno sta provando a commercializzare il vino a basso grado alcolico, altri si stanno attrezzando anche per seguire la ristorazione italiana, che a sua volta sta cercando di entrare in questi mercati. Insomma, c’è molto da fare.
La risposta dei produttori italiani ai dazi può essere anche una revisione dei listini? Magari cercando di non scaricare sui clienti tutto l’aumento del 20%?
Abbiamo svolto un’inchiesta presso i nostri colleghi che gestiscono in modo specifico le relazioni all’estero, che si occupano di tutta la parte di finanziamento dell’esportazione: proprio loro ci segnalano che alcune imprese stanno pensando di rivedere i listini. In letteratura c’è poco su questo tema, ma, tendenzialmente, i dati di cui disponiamo ci dicono che circa il 30 per cento degli incrementi, di solito, viene assorbito dai prezzi. Una percentuale credibile.
(Marco Tedesco)
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