Perché esiste una continuità sui dazi USA tra le presidenze Biden e Trump: i dati, le medie contro i principali Paesi UE (Italia compresa) e cosa aspettarsi

DAZI DI TRUMP “IMPAZZITI”? IN REALTÀ C’È CONTINUITÀ CON LA PRESIDENZA BIDEN: IL GRAFICO

Con la guerra dei dazi cominciata questa notte da Trump l’impressione è che di colpo gli Stati Uniti si siano svegliati con procedure aggressive e improvvise contro l’UE, la Cina e tutti gli altri partner commerciali colpiti dalla tariffe annunciate nella notte americana. Ebbene, non è esattamente così e non per un mero discorso di partigianeria o ideologica politica, ma per un semplice dato numerico: i dazi c’erano prima e dopo Trump, ci sono stati con le presidenze Dem e GOP e rappresentano uno strumento – certo, particolarmente odioso per l’economia liberale e internazionale – a disposizione degli Stati e delle economiche nazionali.



La somma di dazi reciproci e dazi “generali” annunciata ieri dalla Presidenza Trump in realtà si inserisce in un’ottica di reazione dello “Zio Sam” alla crisi interna dell’economia produttiva, con radici che affondano ben più lontano dell’ascesa di Donald Trump. Un grafico in particolare emerso nei giornali USA questa notte lo fa ben comprendere, mettendo in evidenza la media ponderata che nel 2022 vedeva tariffe imposte dagli Stati Uniti d’America contro alcuni dei principali partner europei.



In particolare, con Francia, Spagna, Italia e Regno Unito, i dazi nel secondo anno della Presidenza Biden erano superiori (in media ponderata) con l’America che aveva un disavanzo favorevole nei loro confronti, a dispetto della condizione invece di svantaggio a livello generale di 4 delle più importanti economie europee. Questo non dimostra certo che l’impatto che avranno i dazi di Trump sarà ridotto e “passeggero”, ma significa che rientra in un percorso di continuità che già con la precedente Presidenza era impostato per ampliare l’economia produttiva interna americana, recuperando il fortissimo deficit pubblico che sconta ogni anno lo Stato americano.



Osservando i recenti dati di Assolombarda emessi a febbraio dopo i primi alert sui dazi reciproci che stava preparando l’amministrazione Trump, anche solo a livello italiano vi erano filiere che avevano uno svantaggio netto già sotto Biden con i prodotti esportati, ma al contempo altre aree (come la gomma-plastica, i trasporti, l’agroalimentare e la farmaceutica) negli ultimi anni hanno avuto un favore pendente nella bilancia commerciale con gli USA: sono dunque queste le filiere che ora rischiano maggiormente, ma non per un improvviso “impazzimento” americano, bensì per come si era strutturato il rapporto import-export negli ultimi anni sull’asse Roma-Washington.

IL DEBITO PUBBLICO E LA DUPLICE RISPOSTA (OPPOSTA) DI BIDEN E TRUMP

Tra pandemia COVID, guerre e inflazione, la Presidenza Biden ha aumentato in maniera vertiginosa il debito pubblico nazionale: se è vero che le politiche della FED, la potenza del dollaro globale e gli investimenti dell’economia USA hanno sicuramente mantenuto uno standard da superpotenza anche superiore alla Cina in questi anni, il rischio fortissimo di far saltare il “banco” nei prossimi anni se dovesse ancora aumentare il deficit è altamente preoccupante per la Casa Bianca.

Vi è dunque una sorta di continuità anche in questo tra Biden e Trump nel trovare soluzioni per poter rientrare di tale debito: i Dem hanno puntato maggiormente sui sussidi, mentre la politica economica del tycoon si fonda soprattutto sui dazi, come abbiamo iniziato a vedere questa notte. Il problema è che recenti studi dimostrano come la politica dei sussidi per poter stimolare introiti e produttività maggiori non ha reso del tutto, rendendo sul lungo termine potenzialmente più facile l’economia degli Stati Uniti.

I tagli ai fondi pubblici, la politica sui dazi anche più aggressiva del suo predecessore e il progetto di una crescita doppia del debito sono i punti di forza dell’amministrazione Trump che però ora passeranno al vaglio della storia (e dei bilanci) dei prossimi 4 anni. Per almeno due decenni gli Stati Uniti sono stati il leader globale per la domanda internazionale, accumulando ben più ampi deficit esterni e impoverendo le attività produttive interne: delocalizzazione e importazioni hanno portato sicuramente il successo della superpotenza economica che oggi sono gli USA, ma dal punto di vista fiscale e produttivo l’America ha prestato il fianco rischiando nei prossimi anni di scoprisi come un “gigante dai piedi d’argilla”.