Se nei mercati finanziari ci fosse una logica, la Borsa di martedì 7 aprile dovrebbe crollare in Italia, dopo lo scarno annuncio reso ieri dal premier Conte durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi sul decreto liquidità. Che di liquidità vera alle aziende promette di farne affluire la cifra mostruosa di 750 miliardi, cosa che capiremo è in realtà alquanto difficile. Ma intanto, ha congelato la proprietà di una lunga serie di aziende di tanti settori, tra cui moltissime quotate in Borsa, che diventano intoccabili da parte di soggetti stranieri anche se comunitari: aziende dei settori strategici di sempre, come infrastrutture, difesa, ma anche finanziario, creditizio, assicurativo, energia, acqua, trasporti, salute, sicurezza alimentare, intelligenza artificiale, robotica, semiconduttori, cybersicurezza. In pratica, tutto quello che conta. E si sa che se un’azienda diventa “non scalabile” perde appeal in Borsa. Per non dire che un simile decreto costituisce una botta di statalismo degna di miglior causa.
Un divieto, questo delle scalate borsistiche tra europei, in aperto dispregio dei Trattati europei, come sottolinea prontamente l’avvocato Cesare San Mauro su Twitter; per quanto la Francia si comporti in modo simile da sempre, l’Italia così li sta violando lei, e poi la Francia è un contraente forte dell’Unione Europea, non uno straccione mediterraneo come l’Italia è considerata dai tedeschi e – sotto-sotto – anche dagli stessi francesi.
Invece, sul fronte dell’attesissima trasfusione di liquidità ad un’economia imprenditoriale che oggi è per i due terzi bloccata, che non fattura un euro, e ne perde a pioggia ogni giorno che passa, la montagna ha partorito un annuncio di proporzioni topesche. Perché non basta la garanzia al 90% dello Stato, per ottenere davvero i soldi necessari a sopravvivere nel trimestre orribile che le imprese italiane hanno appena intrapreso: no!
Le banche, trasformate dal decreto in inediti “pubblici ufficiali”, intermedieranno tutte le asserite erogazioni; e per effettuarle, potranno valutare il “merito di credito” di tutte le imprese che chiederanno i soldi. Cioè: né più né meno di come fanno normalmente. O meglio non fanno, vista la permanente stretta creditizia in cui devono vivere le imprese nella nuova, brutta normalità generata dalla crisi del 2009, che davvero ha reso le maglie del credito strettissime.
Il giudizio delle banche sarà severo perché coprire il 10% che la garanzia statale non copre non è da tutti i clienti. Chi prima della crisi da coronavirus nuotava in acque difficili, in bilico tra l’utile e la perdita, si vedrà dare il due di picche. E gli altri, anche quelli sani, per restare credibili agli occhi delle loro banche faranno bene a procurarsi anche quel 10% che manca al 100% di garanzia, rivolgendosi a un consorzio fidi: peccato che di consorzi sani ne siano rimasti ben pochi.
Riepilogando. I prestiti fino a 25mila euro sono erogati con la garanzia statale del 100% e niente istruttoria bancaria: bene, almeno questa norma va.
I prestiti da 25 a 800mila euro hanno il 90% di garanzia statale, il residuo 10% può essere coperto da un consorzio fidi, ma comunque la banca deve valutare il merito di credito. Oltre gli 800mila euro e fino a 5 milioni, niente da fare, non si può oltrepassare la garanzia del 90% e dunque non c’è che sperare nella magnanimità delle banche.
Ma perché quel magro 10% di garanzia mancante è così incisivo? Perché alle banche non conviene rischiare nulla, con la normativa che subiscono. E a meno di alleggerimenti improbabili, quel maledetto scaglione del 10% è un grande deterrente rispetto alla possibilità di dare credito anche alle aziende in difficoltà. Ma tutte le aziende ferme per il virus sono oggi in difficoltà!
Per guadagnare i miserrimi margini d’interesse consentiti dal gioco dei tassi, le banche rischiano di immobilizzare capitale di vigilanza prezioso. E se il debitore non paga, prima di incassare quel 90% di garanzia statale la banca deve sudare i sudori freddi della burocrazia amministrativa e giudiziaria di un sistema decomposto come quello della giurisdizione italiana.
Per capire però quanto siderale sia la distanza tra le attese degli imprenditori e quel che il governo ha concesso ieri, basti pensare che le richieste delle imprese puntavano al 100% di garanzia, niente valutazione bancaria del merito di credito, 30 anni per il rimborso e 2 di preammortamento (periodo in cui si pagano solo gli interessi ma non il capitale). Siamo su tutto un altro piano.
Chicca lottizzatoria nel quadro complicato riassunto. La Sace si emancipa dalla controllante Cdp nella gestione dei 50 miliardi stanziati per aumentare il credito all’esportazione: Giggino Di Maio, ministro degli Esteri, ha battuto un colpo. In cambio, la Cdp si conferma nell’orbita piddina.
Ma è tutto perduto per fare un decreto di rilancio serio? Forse no. Le premesse sono deprimenti, ma bisognerà leggere il testo del decreto e attenderne la discussione parlamentare. E poi c’è sempre il decreto aprile che verrà dopo Pasqua: potrà magari accogliere qualcuna delle tante promesse deluse.