Venerdì Mattarella ha firmato il Decreto Sicurezza. Tra le altre cose contiene uno scudo penale per le forze dell’ordine. È un primo passo, ma non basta

Venerdì scorso scorso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il cosiddetto “decreto sicurezza” varato dal Consigli dei ministri il 4 aprile, che recepisce molti contenuti del vecchio “ddl sicurezza” ed è accusato dalle opposizioni parlamentari di presentare tratti autoritari. A cominciare dallo scudo penale per le forze di polizia.



Essendo un atto legislativo abbastanza corposo, preferisco focalizzare l’attenzione sulla parte relativa alle norme a “Tutela delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco e degli organismi del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica”.

In questa parte del decreto vengono introdotte aggravanti del delitto di violenza o minaccia e di resistenza a un componente delle forze di polizia con l’aumento di pena fino alla metà e un’ulteriore aggravante per atti violenti commessi al fine di impedire la realizzazione di un’infrastruttura.



Si prevede l’utilizzo, per le forze di polizia, di telecamere indossate (bodycam), al fine di registrare l’attività operativa. Viene aumentato fino a 10mila euro l’importo massimo che può essere corrisposto per ciascuna fase del procedimento, per la tutela legale degli appartenenti alle forze di polizia per fatti connessi alle attività di servizio.

Viene rafforzata la tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche con la previsione, in caso di deturpamento e imbrattamento degli stessi, della pena della reclusione con aggravanti e sanzioni accessorie in casi specifici.



Viene introdotto il nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, si inasprisce la pena per chi istiga alla disobbedienza delle leggi se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o mediante scritti o comunicazioni diretti a persone detenute.

Una fattispecie di reato analoga alla rivolta in istituto penitenziario è introdotta anche per condotte commesse all’interno di centri di trattenimento per migranti irregolari. Inoltre, si introducono misure a tutela dello stesso personale in relazione ad attività di contrasto rispetto a condotte riferibili a minacce terroristiche e sovversive. All’art 28 viene inoltre previsto il porto di arma diversa da quella in dotazione per tutti gli agenti di pubblica sicurezza. Una norma da attuarsi con apposito decreto. 

Le bodycam e i nuovi reati o aggravanti afferiscono a misure tecniche o giuridiche di prevenzione e repressione dei delitti e indirettamente sono anche a tutela degli agenti. Il porto d’arma allargato andrebbe attuato discriminando il bisogno di tale beneficio, per evitare la proliferazione di “sceriffi” in città. La vera misura a tutela del personale di polizia consiste nel rimborso di 10mila euro per ogni grado di giudizio. Costituisce una buona ma non conclusiva misura del risarcimento per le spese legali sostenute, vedremo di seguito perché.

Detto questo, le misure varate dal governo erano attese e vengono apprezzate, ma non sono di sicuro esaustive delle esigenze del personale. Lo vedremo adesso con due fatti realmente accaduti a due militari.

Nel primo caso, un comandante dei carabinieri guida un’operazione che culmina in un conflitto a fuoco e si conclude con militari e civili feriti. Il pubblico ministero non interviene sul posto, acquisisce gli atti e nomina un perito. Il perito, analizzando gli atti compiuti e periziando i corpi di reato, conclude nella sua perizia che il comandante, al fine di compiere degli arresti, abbia ingannato il Pm modificando la scena del crimine e acquisendo falsi corpi di reato.

Vista la gravità delle accuse, il tribunale ordina una ulteriore perizia che viene affidata ad un docente universitario che, rianalizzando gli atti e riesaminando i corpi di reato, conclude, con motivazioni tecniche non esperite dal primo perito,  sulla inesistenza del reato. A richiesta del pm, il tribunale assolve il comandante con la formula più ampia, “perché il fatto non sussiste”.

Siamo ancora in primo grado, ma sono passati sei anni. Il difensore di parte è un famoso avvocato. Pensate che per un processo come questo, lungo sei anni, siano bastati 10mila euro? Il comandante non ha subìto iniziative disciplinari,  ma per sei anni ha avuto l’avanzamento fermo e non ha potuto partecipare a concorsi. Bastano 10mila euro per tutto?

Nel secondo caso il comandante dei militari viene bersagliato vigliaccamente con esposti anonimi. La linea gerarchica, invece di cestinare, avvia un’indagine presso il tribunale militare, che si conclude – anche in questo caso – con l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in tempi più rapidi ed accettabili, senza conseguenze disciplinari per il malcapitato.

Nel frattempo tuttavia, in attesa di giudizio, il comandante viene trasferito per incompatibilità, con tutta la famiglia e con la perdita del comando. Passeranno anni per ricostruire la carriera e prima di riottenere un altro comando con ulteriore trasferimento familiare. Bastano 10mila euro?

Per concludere. Le misure appena varate costituiscono un passo avanti, ma il cammino è ancora lungo e potrebbe essere effettuato anche con poca spesa, impegnandosi a migliorare il funzionamento degli istituti. In particolare: contingentare le indagini affidandole a Pm di provata esperienza per evitare giudizi affrettati, affidare la difesa degli agenti operanti all’Avvocatura dello Stato per limitare i costi a carico degli imputati, da ultimo allargare le competenze dei tribunali militari, di solito più rapidi a svolgere i processi. Questo Governo ha dimostrato di avere a cuore le sorti degli agenti e dei militari; crediamo che continuerà su questa strada.

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