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Home » Esteri » Usa » DEM TRA NEW YORK E PD/ Se il caso Mamdani dice “qualcosa” a Elly Schlein

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DEM TRA NEW YORK E PD/ Se il caso Mamdani dice “qualcosa” a Elly Schlein

Nicola Berti
Pubblicato 27 Giugno 2025
Zohran Mamdani, figura emergente dei dem americani (Ansa)

Zohran Mamdani, figura emergente dei dem americani (Ansa)

A New York, capitale mondiale dem, scalda il motori un anti-Vance, Zohran Mamdani. Una via stretta la sua. Come quella di Elly Schlein

È presto per capire se Zohran Mamdani si rivelerà davvero una nuova stella dem nel cielo politico americano, al momento abbagliato dal trumpismo. Quel che è certo è che il New York Times, storico monopolista della civiltà liberal nella Grande Mela, è rimasto di stucco e di cattivo umore di fronte alla vittoria “non vista arrivare” di un antagonista – musulmano e socialista – nelle primarie dem per il municipio della più grande metropoli Usa (nonché la città più popolata da israeliti sul pianeta).


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E questa sembra una notizia nella notizia: fra l’altro nel giorno in cui il presidente repubblicano (cittadino di New York, aborrito dal NYT) ha celebrato un suo trionfo al summit NATO in Europa, mentre i dem statunitensi assistono ancora muti e paralizzati al Trump-show otto mesi dopo la disfatta delle presidenziali.


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Il NYT e l’establishment dem newyorchese puntavano su Andrew Cuomo, usato un po’ usurato ma ritenuto sicuro – anche dai maggiorenti nazionali del partito – per mantenere il potere a New York, dopo l’ultimo disastroso esperimento politically correct (l’ex poliziotto afro Eric Adams, travolto da scandali finanziari e infine da sospetti “inciuci” cittadini con Trump).

Mamdani, certamente, presentava le credenziali di un dem radicale, vicino ad Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata del Bronx che da tempo brilla dalla Grande Mela nella sinistra dem attorno al grande vecchio Bernie Sanders.


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Il programma di Mamdani è stato bollato come “socialista” perché vuole più edilizia sociale e affitti bloccati, salario minimo e trasporti gratis per le fasce meno abbienti, finanziati da un aumento delle tasse sui redditi più alti.

È la stessa New York che ha appoggiato “AOC” nella sua crociata contro Amazon, quando Jeff Bezos voleva costruire sull’East River il suo secondo quartier generale negli USA, con investimenti miliardari ma beneficiando anche di pari agevolazioni fiscali.

Mumdani è deputato dello Stato di New York eletto in un’altra “periferia” della Grande Mela: il Queens, il più popoloso fra i cinque municipi della Grande Mela dopo Brooklyn.

L’ormai probabile candidato sindaco dem, tuttavia, aveva – e ha confermato alla riprova del voto – profili palatabili anche per settori élitari del progressismo cittadino. Il padre è nato in India, ha vissuto in Africa (come il padre musulmano di Obama) e insegna oggi alla Columbia University. La madre (indiana) ha studiato ad Harvard ed è una regista-sceneggiatrice affermata, nominata per l’Oscar e premiata a Cannes e Venezia. Pura razza dem?

Evidentemente sì, per gli elettori del melting pot newyorchese del 2025. Evidentemente no – non più – per un’élite intellettual-mediatica che non si sente più garantita da un musulmano di nome Mahmood in cattedra alla Columbia agitata dalle proteste anti-Israele.

Evidentemente no, per una New York che identifica ancora il suo “leftism” in una classica dinasty della vecchia immigrazione italiana (anche il padre di Andrew Cuomo, Mario, è stato governatore dello Stato) e negli antichi fasti kennedyani (la moglie di Cuomo, Kerry, è figlia di Bob).

Gli indiani, dal canto loro, sono da tempo grande forza nella Silicon Valley e non sorprende nessuno che vogliano farsi strada anche nella East Coast delle grandi banche, delle grandi università, dei grandi media. Non sono comunque certo una minoranza da manuale di sociologia politica del ventesimo secolo.

Sono invece una delle tante che, nel ventunesimo, non mostrano più remore nel votare Trump, piuttosto che a lanciare un loro candidato a sindaco di New York dall’ala sinistra dei dem.

Per certi versi Mamdani sembra anche una risposta “antropologica” – espressa direttamente dalla base elettorale – a JD Vance, il vice di Trump, già proiettato verso le presidenziali 2028. Un figlio dell’America profonda, bianca, non meno religiosa del Midwest musulmano che non aveva votato Joe Biden alle primarie dem 2024 e non ha votato Kamala Harris nel novembre scorso.

Americani vecchi o nuovi, quest’ultimi in parte attirati negli USA dalla globalizzazione targata Clinton od Obama; alla fine tutti “lasciati indietro”. Tutti, fra l’altro, più o meno contrariati dagli aiuti incondizionati dell’amministrazione Biden a Israele, che secondo Mamdani a Gaza avrebbe compiuto un “genocidio”.

A proposito di finanza: è stata scioccata – e per certi versi scioccante – anche la reazione al caso Mamdani da parte del Financial Times. L’altra sera il quotidiano della City – voce principale della finanza globale – ha aperto la sua home con una breaking tutt’altro che british: “Wall Street sbanda sull’esito delle primarie per il sindaco di New York”.

Quel che è incontestabile è che Mamdani si è affermato anche nei seggi di Sud Manhattan, attorno al New York Stock Exchange, ai grattacieli delle banche d’affari e dei grandi studi legali. I giornalisti di FT non sembrano però mostrare dubbi: il Mercato sarebbe spaventato dall’emergere di un “socialista”, di un più o meno aperto “rottamatore” del Partito democratico centrista e liberal-globalista.

E questa preoccupazione starebbe avendo la meglio – nell’establishment finanziario – anche su un primo e incerto vagito “dem” di resistenza politica a Trump, il grande sconvolgitore di ogni “ordine mondiale”, di cui i mercati finanziari sono un’infrastruttura portante.

Resta il fatto che Trump vuole abbassare le tasse ai ricchi, mentre Mamdani le vuole alzare: e senza più i giochi di parole di Biden che aveva chiamato “Inflation Reduction Act” un maxi-piano di sussidi statali all’industria.

Il caso Mamdani – soprattutto se si consoliderà con l’elezione a sindaco – sembra interpellare in modo forte i “progressisti (gli anti-trumpiani) di tutto il mondo”. Ma in misura specifica i dem italiani e la loro leader.

Elly Schlein è (anche) cittadina americana. è un po’ meno giovane di Mamdani, ma non ha più di 40 anni appena compiuti. È figlia di un politologo americano “dem” cresciuto nel New Jersey (appena oltre il fiume Hudson), figlio dell’immigrazione israelita. Nel curriculum della segretaria Pd spicca un’esperienza fra i dem Usa, nella prima campagna elettorale di Obama.

Come Mamdani, Schlein ha trovato la sua vera rampa di lancio nella politica locale: come candidata (vincente) al voto regionale in Emilia-Romagna del 2020, combattutissimo e ad alta visibilità nazionale. Soprattutto: come Mamdani, Schlein ha poi vinto a sorpresa primarie cruciali (per lei era in palio la guida stessa dei dem italiani). E ha prevalso sul candidato della “macchina” del Pd, Stefano Bonaccini, suo “capo” diretto alla Regione Emilia-Romagna.

Le ragioni per tener d’occhio in parallelo Mamdani e Schlein sembrano però legate soprattutto alle sfide future, che paiono in parte sovrapponibili.

Venti giorni fa Schlein ha condiviso con la Cgil di Maurizio Landini la sconfitta nel referendum contro il Jobs Act. Però difficilmente si può contestare a Landini e Schlein che il 30% affluito al voto abbia identificato un “blocco elettorale”: minoritario, ma non certo irrilevante.

Un blocco disegnato dai vincoli di una consultazione referendaria abrogativa italiana, ma basta simulare un quesito affermativo (“Siete favorevoli o contrari a un salario minimo legale di 12/15 dollari/euro all’ora?”) per immaginare subito cifre più alte di affluenza e un risultato non scontato in anticipo.

M5s ha vinto le elezioni 2018 sulla promessa (mantenuta) del reddito di cittadinanza, che Giuseppe Conte oggi, verosimilmente, non riproporrebbe: ma un’imposizione patrimoniale era nel retro-pensiero del MEF di Roberto Gualtieri e Antonio Misiani, ex comunisti nel governo ribaltonista M5s-Pd.

Soprattutto: a due anni dal voto politico le liste d’attesa nella sanità pubblica e le bollette energetiche non ancora normalizzate restano ancora un rischio per la maggioranza di centrodestra, da mercoledì impegnata a spendere il 5% del PIL nel riarmo.

E questo avviene quando le piazze vengono riempiono a cadenza settimanale dalla sinistra pacifista (anzitutto anti-israeliana: immaginiamo, per gioco, un referendum “consultivo” su “Siete favorevoli o contrari alla prosecuzione della cooperazione fra Italia e Israele e all’aiuto all’Ucraina?”).

La via di Schlein non sembra più stretta di quella davanti a Mamdani. E in fondo non appare troppo diversa da quella che le primarie dem di fine 2013 aprirono davanti all’outsider Matteo Renzi, incitato a rottamare un Pd nato vecchio. Non ci riuscì, forse perché dovette scendere a patti con un presidente della Repubblica 80enne, ex dirigente del PCI. Il 40% ottenuto da Renzi a euro-2014 – così simile al 43% di Mamdani alle primarie newyorchesi – si dimezzò brutalmente alle politiche 2018, non prima di una pesante sconfitta referendaria.

Solo a titolo annalistico: la “landslide” Pd alle europee del 2014 portò a Strasburgo anche la 29enne Schlein. La quale però già l’anno dopo abbandonava il Pd di Renzi, giudicandone lo stile troppo “di centrodestra”.

Dieci anni dopo è lei a trovarsi di fronte a una porta stretta, quella che le consentirà – se ci riuscirà – di avanzare indenne fra populismi antagonisti di tutto ed élites antagoniste delle destre.

Per coincidenza curiosa è lo stesso sentiero accidentato nel quale si sta ritrovando Ursula von der Leyen: la presidente (moderata) della Commissione Ue che rischia di perdere l’ala rossoverde della sua maggioranza all’europarlamento.

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