Demetrio Albertini si è raccontato in una bella intervista rilasciata a Roberto Perrone per Il Giornale. Albertini, grande centrocampista passato dal pallone alla scrivania, è stato per quasi tutta la carriera al Milan con 426 presenze, 28 gol, cinque scudetti, tre Champions League, altrettante Supercoppe italiane, due Coppe Intercontinentali e altrettante Supercoppe Europee oltre che, a fine carriera, una Liga col Barcellona e una Coppa Italia con la Lazio. Demetrio Albertini nasce in una famiglia brianzola: “Di Villa Raverio, comune di Besana in Brianza. Papà muratore, mamma casalinga, tre figli maschi. Una famiglia molto unita e semplice che viveva intensamente il paese. Le distanze si sono ravvicinate ma allora Milano per me era come New York. Sono venuto per il calcio”. Gli inizi all’oratorio che “era il nostro stadio, con una porta vera, altrimenti usavamo quello che capitava. Io giocavo anche da solo contro il muro, avevo una grande passione”. Il paese è sempre stato importante per Albertini, per mantenere relazioni umane profonde: “Torno a casa due giorni dopo la finale del Mondiale 1994. Mi avevano costruito, all’ingresso del paese, una specie di porta/arco di compensato. Tre giorni dopo sul campo dell’oratorio giochiamo una partita, la mia leva, classe ’71, contro il resto del paese”.
DEMETRIO ALBERTINI: MIO PADRE E LE RINUNCE DA RAGAZZO
Con la Nazionale ha solo sfiorato grandissime gioie Demetrio Albertini: la finale mondiale 1994 persa ai rigori e quella europea 2000 al golden gol. In questa intervista sulla vita però c’è spazio per il Demetrio Albertini uomo, cresciuto dal padre che ne fu anche primo allenatore e che poi avrebbe conservato tutte le maglie che Demetrio gli regalava: “Mi ha sempre seguito, come ha fatto con i miei fratelli. E se giocavo male non faceva come gli altri genitori urlanti attaccati alla rete. Lui fischiava. Lo distinguevo nettamente”. Da ragazzo, sacrifici per unire allenamenti e scuola: “Due chilometri a piedi, un treno e quattro mezzi per arrivare a Linate. Uscivo alle 6,30, prima la scuola. Un vicino di casa, talvolta, mi dava un passaggio al ritorno altrimenti tornavo alle 21,30. Una cosa così si fa solo per passione. A quell’età nessuno ti dice vincerai, guadagnerai, diventerai famoso. Non parlo di sacrifici ma di rinunce. Gli amici facevano le castagnate, le gite sulla neve. Io i tornei”. Dopo un prestito al Padova, Albertini torna al Milan e va a vivere a Milano, una vita “formativa” perché “ho dovuto cercare un equilibrio che a vent’anni è difficile, specialmente se sei affermato, famoso e con disponibilità economica. Cominci a vivere da adulto senza esserlo”.
DEMETRIO ALBERTINI DAL MILAN A OGGI
Demetrio Albertini ricorda che “quello che mi mancava era andare in centro a prendermi tranquillamente un gelato senza venire assalito”. Lo disse a un giornalista “e fece il titolo lo stressato del calcio. Mi sono vergognato”. Niente vita notturna ma ristoranti perché “l’amicizia si consuma a tavola” (altro insegnamento di suo padre). Conosce i grandi cuochi quando ancora non erano star, poi comincia ad andare per cantine: “La prima a 22 anni, Villa Russiz in Friuli. Non ho più smesso”. Il debutto il 15 gennaio 1989 con Arrigo Sacchi che “mi ha trasformato da calciatore a giocatore di calcio”. Fabio Capello invece “ha avuto il coraggio di farmi titolare in quel Milan straordinario che ha vinto tutto” i cui segreti erano “allenamento, senso di appartenenza, rispetto reciproco”, con Costacurta e Maldini grandi amici. Nel 2006 l’addio al calcio giocato e subito vice-commissario in Federcalcio, mentre non ha mai pensato di fare l’allenatore. Ora è presidente del Settore Tecnico della Federcalcio (oltre che imprenditore): “Un ruolo di servizio per la valorizzazione di tutte le figure di un club, dall’allenatore allo scout”. Perfetto per un calciatore pensante, ma Demetrio Albertini si schermisce: “Ero talmente lento che dovevo arrivarci prima con la testa”.