La democrazia è una parola tanto diffusa quanto assai poco compresa. Piace così tanto che non sembra necessario fare uno sforzo per conoscerla più da vicino. Anzi: poiché, in qualche modo, se ne percepisce la problematicità, si tende a evitare di entrare nel merito.
Oggi alla parola “democrazia” si affianca sempre più spesso una parola sorella, la parola “crisi”; la si percepisce nella distanza che l’uomo della strada sente nei riguardi della politica, nel calo della partecipazione alle elezioni, nella rissosità dei partiti, nella scelta di governi “tecnici”, facilmente tacciati di non essere democratici ma poi sostenuti ex post, dopo il loro insediamento, da ampie maggioranze politiche. Pur essendo fenomeni evidenti, non sempre vi è un impegno a scandagliarne il sostrato chiedendosi: ma perché la democrazia è in crisi e come porvi rimedio? Meglio: è possibile costruire un percorso riparatore che consenta di configurare anche per la democrazia un futuro “sostenibile”?
Mentre si scrive, siamo confrontati con un problema che fa parte dell’universo “democrazia”, e che riguarda la sua esportabilità. L’Afganistan ha messo a nudo che la democrazia non può, nella maggioranza dei casi, essere esportata, nemmeno dopo vent’anni, nemmeno con un esercito ben armato, nemmeno con la mobilitazione delle Ong, che da anni lavorano a costruire una società civile in grado di sostenere il peso di istituzioni democratiche.
Dobbiamo, dunque, accontentarci di prendere atto che la democrazia è in crisi dove c’è e non può essere esportata dove non c’è? Impossibile fermarsi alla pars destruens, soprattutto perché alla democrazia non c’è alternativa. Tutto ciò che non è democratico è parte della faccia oscura della luna: è oligarchia, autoritarismo, dittatura, persino “democratura”, espressione che storpia il nobile nome, usurpandolo e indirizzandolo alla tutela dei propri interessi. È per questo che Sabino Cassese, sul Corriere del 22 agosto, ha potuto parlare di “diritto alla democrazia” come diritto universale, un diritto in cui forma e sostanza si fondono per diventare un diritto ad avere un governo giusto, capace, non corrotto, che usi del proprio potere non per sé ma per costruire il bene comune, quel governo, insomma, che tutti desiderano avere.
Ciò posto, occorre prendere atto del mix di questioni e di condizioni e di strutture e di valori (e di molto altro ancora) che sottostanno e sorreggono la democrazia, intesa come governo giusto, un mix intricato, difficile da sbrogliare con formule semplificatrici. Non solo: ogni Paese democratico ha il suo mix, le sue dinamiche positive e negative (ad esempio: si dice che l’Italia ha una società civile molto attiva, ma che poi è spesso vittima di mafie e di nepotismi), la sua storia, che ne fa un soggetto particolare dentro il grande ventre democratico.
È per questo che è assai poco utile fare riferimento ad “indicatori”: meglio uno sguardo di insieme che abbia in mente non solo le istituzioni ma il benessere delle persone (altra parola di difficile declinazione), la tutela dei loro diritti, compresi quelli sociali (salute, istruzione, cultura, ecc.), le reti di relazioni che danno forma a quel sostrato di formazioni sociali su cui innestare istituzioni autenticamente democratiche, in cui alla forma – alla procedura – si affianchino una cultura e un’etica pubblica solidamente ancorate in quei “valori democratici” senza dei quali nessuna procedura più sostenersi, qual è ad esempio il rispetto di chi maggioranza non è. Governo della maggioranza nel rispetto dei diritti dell’opposizione e di tutte le minoranze, si insegna nelle aule universitarie.
Senza un solido “senso dell’Altro” la democrazia non si regge, così come non si reggono le relazioni umane e quelle istituzionali. Certo: non sempre “l’altro è un bene per me”: eppure, senza questo humus, questo terreno su cui costruire, questa rocciosa ma incontestabile coscienza, è difficile anche solo cominciare a ragionare, men che meno a ragionare di politica e del suo coraggio.
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