Tutti pazzi per il debito. È questo, ormai, il mantra del momento. Mentre i segnali che giungono dalle economie di mezzo mondo ci indicano un graduale ma tutt’altro che ciclico peggioramento dei fondamentali, ecco che l’agonia vigile e “farmacologica” della piccola Grecia diventa motivo di enorme interesse per gli investitori di tutto il mondo.
Mentre da Bruxelles scoprivamo che Atene dovrà porre in essere tagli per 4,8 miliardi di euro come precondizione per aver garantito un salvataggio dall’Unione Europea, lo stesso governo ellenico emetteva – per la seconda volta in dieci giorni – bond a 10 anni per raccogliere 5 miliardi di euro. Per Cnbc le richieste avrebbero toccato un controvalore di 14 miliardi di euro, mentre Reuters azzardava addirittura 16 miliardi. Evviva, governi e soggetti istituzionali si comportano esattamente come i tanto vituperati vulture funds, si lanciano sulla carcassa del debito pubblico di uno Stato e attendono che la loro mossa porti i frutti – ovvero i mega interessi garantiti – sperati.
Peccato che Atene abbia bisogno di racimolare 53 miliardi di euro e, avanti di questo passo, sarà molto dura ottenerli. Anzi, ripagarli ai tassi spaventosi a cui propone i propri bond. Come scritto ieri, quello dei governments bond è il prossimo caso subprime: ci vorrà forse più tempo per giungere a una crisi sistemica, ma le conseguenze, per Stati e cittadini, saranno decisamente peggiori.
Il premio offerto da Atene, infatti, è superiore di oltre 20 punti base al benchmark di chiusura di mercoledì rispetto allo spread sul bund tedesco: follia, generalizzata e benedetta dalle autorità europee. Atene, inoltre, ha compiuto l’errore del secolo. Il mandato di gestione per questa emissione ha infatti visto impegnate cinque banche – Hsbc, Nomura, Barclays, National Bank of Greece e Pireus Bank – e tagliato fuori quelle impegnate nella precedente operazione di collocazione, criticata per la “prezzatura” avvenuta a gennaio.
Certo, un bell’atto di coraggio sul mercato, ma mettersi contro Deutsche Bank, numero uno del principale paese controparte di molta esposizione di capitale e soprattutto Goldman Sachs, colei che ha permesso il currency swap delle meraviglie con cui Atene per un po’ ha intorbidito le acque del debito, appare una mossa suicida.
Temiamo che, se la tensione sociale in Grecia salirà ulteriormente, al Chicago Merchantile Exchange le scommesse short individuali contro la Grecia si impenneranno di colpo, per poi ritrasferirsi sull’intera area euro al fine di non lasciare troppe tracce, vista anche la scelta compiuta mercoledì dalle autorità regolatrici delle due sponde dell’Atlantico di esaminare il trading su euro e cds: si tratterà, a breve, di un impatto devastante, dieci volte quanto accaduto lunedì scorso con il tonfo della sterlina orchestrato dai “sell” coordinato degli investitori. Buona fortuna.
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Detto questo, Atene deve pagare le sue colpe e non essere salvata: non si capisce altrimenti perché Dublino abbia dovuto imporre lacrime e sangue ai suoi cittadini mettendosi nelle mani e sotto la lente d’ingrandimento di Fmi e Banca Mondiale e la Grecia debba godere di un trattamento di privilegio. È pratica comune per quanto riguarda i titoli di Stato che i governi alternino i soggetti chiamati a gestire la syndication e che non si utilizzino i medesimi collocatori due volte di fila, questo il mercato lo sa, ma le recenti polemiche emerse, con la conseguente caccia alla streghe in sede Ue, potrebbero innervosire e non poco i fondi, già in postura speculativa e particolarmente attenti quando l’intervento pubblico della politica si fa pressante. Insomma, business as usual.
In compenso né la Bank of England né la Bce sanno minimamente da quale parte voltarsi per dar vita alla tanto sbandierata exit strategy dalle misure di emergenza fin qui approntate – con ben pochi risultati – per tamponare gli effetti della crisi: tassi fermi e, per quanto riguarda la BoE, l’incognita del quantitative easing sempre all’orizzonte, sia come impatto da valutare sia come possibile extrema ratio in caso la spirale deflattiva investa il Paese come si teme nella prospettiva di double dip. Quanto possa durare questa impasse non è dato saperlo, certamente la questione greca sta non poco frenando gli eventuali slanci di chi, in sede Bce e Ue, voleva accelerare e provare un aumento dei tassi, ritenendo l’ipotesi inflattiva o iper-inflattiva meno pericolosa di quella deflattiva: si naviga a vista, felici tutti quanti di poter guadagnare un po’ di tempo scaricando sui “cattivi speculatori” tutte le responsabilità per quel letto di nitroglicerina che è l’area euro.
In pratica, come sintetizza Erik Nielsen, economista di Goldman Sachs, «mentre è evidente il desiderio di tornare alla normalità, le tensioni di fondo sulla Grecia e sul sistema bancario in generale, suscitano il timore che l’abbandono troppo rapido delle misure straordinarie possa essere pericoloso per l’economia». E a Goldman sono quanto mai felici che questi timori persistano: instabilità fa rima con profittabilità e liquidità, la stessa che sui mercati è ancora presente e sta riempiendo i portafogli clienti spostando il moral hazard da posizioni bully su commodities e valute alla scelta, chiara e consapevole, che lo shorting sul debito è la migliore misura di hedging: siamo alla follia, il difensivo fa rima con speculativo.
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Stanno creando le condizioni per una china di pericolosità estrema, ma nessuno sembra farci caso: puntare il dito verso fondi che richiedono almeno un milione di dollari per poter entrare nel gioco è miope, oltre che stupido. Sono gli Stati stessi che con una mano stringono quella greca promettendo aiuto e con l’altra schiacciano il tasto degli ordini ponendosi short o giocando alla lotteria dei sovereign bonds: la legge della giungla è l’unica che regola l’Unione Europea, altro che Trattato di Lisbona. E poi, se la prendono con il libero mercato e la sua spietatezza…