Ma la Grecia è davvero salva, come vi hanno detto tutti i media italiani? No, proprio per niente. Alla fine di lunghi e travagliati dibattiti, la riunione fiume tra ministri delle Finanze europei e Fmi ha sancito quanto segue: ci si è accordati per prestare altri 35 miliardi di euro ad Atene, ma la decisione finale è stata rimandata al 13 dicembre prossimo, stante l’assenza della fonte di questo finanziamento, ovvero capire chi paga. Inoltre, i membri dell’Eurogruppo si sono detti preparati a considerare l’idea di abbassare il tasso a cui la Grecia accede ai prestiti di 100 punti base, di tagliare i costi di accesso per la Grecia al fondo Efsf di 10 punti base e di differire gli interessi da pagare al fondo Efsf di 10 anni.
Di deciso, in realtà, non c’è nulla. Si pronti a prendere in esame, ma non a farlo davvero. E c’è un perché che giustifica questa imbarazzata impasse. Nonostante i salti mortali compiuti finora, il redde rationem è ormai arrivato: o si sforbiciano anche i bonds in mano a Bce ed Efsf, oppure non si fa altro che peggiorare la situazione. E che alla base dell’imbarazzante maratona dell’altro giorno ci sia una realtà che in troppi non sono in grado di gestire, lo confermano i numeri lunari su cui ha lavorato l’Ecofin. Per ottenere una ratio debito/Pil tra il 115% e il 135% (a seconda di tagli e tasse) nel 2022, si ipotizza infatti che la Grecia cresca tra il 2015 e il 2022 più o meno come la Cina – si passa dal -5,4% dell’anno prossimo al +0,2% del 2014 al +3,9% del 2015 e poi sopra il 4% fino al 2022 – e, soprattutto, che questa crescita in stile cinese resti costante sia che Atene attui tagli da 50 miliardi di euro, sia che non lo faccia.
Già, i numeri su cui si è lavorato sono questi: un taglio di 50 miliardi al budget, una crescita contemporanea di 60 miliardi e la non variabilità di questo tasso di crescita in base all’attuazione o meno di un piano di tagli al budget. Insomma, follia totale. Ma ecco che salta fuori il coniglio dal cilindro, un bel buyback, ovvero la Grecia si ricompra il suo debito da soggetti privati a prezzo scontato. E ad Atene ci credono davvero a questa ennesima pagliacciata, tanto che il Governo ha già nominato Deutsche Bank e Morgan Stanley per gestire il buyback volontario del debito del Paese.
«In questo momento vogliamo che il buyback sia volontario. Speriamo che all’inizio della prossima settimana, se possibile lunedì, l’Agenzia per il debito pubblico (Pdma) pubblichi l’invito per il buyback», ha chiosato un funzionario alla Reuters, chiedendo l’anonimato. Anche perché il tempo stringe, visto che il buyback andrebbe effettuato entro metà dicembre, il 13 per la precisione, nell’ambito delle misure per rendere sostenibile il debito ellenico. Peccato che la Grecia non abbia ancora determinato il prezzo a cui offrirà di ricomprare il debito dagli obbligazionisti privati.
In compenso, le preoccupazioni che il buyback verrà imposto alle banche greche hanno già affossato i titoli del comparto. Ma, detto tra noi, a chi è in mano il debito greco? E a quanto ammonta? Prima di tutto, un dato: nessuno sa chi caccerà fuori i soldi per finanziare il riacquisto, né quali tipi di titoli saranno acquistati. Si sa soltanto che, stando a quanto ci dice il mercato, i bonds greci sono trattati a 35 centesimi sull’euro. Punto, unica certezza. Ora guardate il grafico qui sotto, spiega la composizione e la proprietà del debito greco in circolazione.
Come vedete, il cosiddetto settore ufficiale (Bce, Fmi, Efsf, governi dell’eurozona, Banca centrale greca) detiene il 70,5% del totale, circa 212 miliardi di euro, mentre le istituzioni monetarie greche (banche, fondi pensione, fondi d’investimento) detengono circa il 10%, ovvero 30 miliardi di euro, cifra in mano anche a istituzioni simili ma estere. Attualmente, la Grecia ha un stock di circa 18,4 miliardi di euro in debito a breve termine, o T-Bills. Dai fumi del vertice Ecofin, sarebbe emersa la volontà di offrire alla Grecia circa 10 miliardi per finanziare il buyback. Ma se Atene compra, chi vende?
Il settore ufficiale è escluso, trattandosi nella maggior parte dei casi di prestiti e vedendo la netta opposizione della Bce a qualsiasi operazione sulle proprie detenzioni, mentre dal canto loro appare kafkiano che le istituzioni greche vendano il loro debito a fronte di un writedown così draconiano, soprattutto alla luce dei risultati dello swap dello scorso marzo. Quindi chi? Nelle menti illuminate della troika dovrebbero essere le banche greche a offrire la metà dei bonds in vendita per il buyback, di fatto un’autostrada verso nuove ricapitalizzazioni. Nei fatti, sembra che soltanto i 30 miliardi di euro di debito greco in mano estera sarà disponibile per il buyback. In effetti, se il prezzo del mercato è 35 centesimi sull’euro, siamo nel range dei 10 miliardi di euro che le istituzioni sono pronte a offrire ad Atene per il buyback, portando in questo modo a una riduzione del debito di circa 20 miliardi di euro (circa l’11% del Pil), se tutti quei soggetti accetteranno però. Ma tutti accetteranno?
Ne dubito molto, visto che se una parte si terrà quel debito fino a scadenza non accettando ulteriori tagli, altri aspetteranno volentieri il default di Atene, visto che i nuovi bonds sono governati da legislazione britannica che paga pari passu. Quindi, la riduzione del debito che eventualmente nascerà dal buyback sarà molto limitata rispetto al wishful thinking di Ue e Fmi. E poi, chi sborserà quei 10 miliardi per finanziare l’operazione? Al netto della situazione attuale, solo i fondi di salvataggio. Ovvero, Germania, Finlandia e Olanda. Sicuri che quei governi avranno voglia di sfidare l’ira dei propri cittadini-contribuenti, soprattutto la Merkel che a settembre 2013 si gioca la carriera alle elezioni?
Ieri, poi, è arrivata la prima conferma di non disponibilità. I managers delle banche greche hanno infatti espresso la loro opposizione al buyback nel corso di un incontro con il ministro delle Finanze, Yannis Stournaras. Quindi, una componente che pesa per il 10% del totale di debito detenuto ha già detto di no, chiedendo un’esenzione ufficiale dal buyback a fronte di proposte alternative che avanzeranno al Governo. Ma non è tutto, come cotè hanno anche chiesto una revisione dei tempi e dei termini del processo di ricapitalizzazione, ovvero la riduzione dell’ammontare dei requisiti di capitale attraverso uno swap obbligazionario. Insomma, l’ennesima buffonata.
Cui ieri, però, si è unita una vera e propria porcheria, capace però di svelare più di mille cifre e numeri quali siano le reali responsabilità europee e delle banche d’affari nel caos greco. La Corte Generale dell’Ue del Lussemburgo, infatti, ha respinto una richiesta avanzata nell’agosto 2010 da Bloomberg News affinché venissero resi noti documenti riguardanti l’operato di istituzioni politiche e finanziarie negli anni che hanno preceduto la crisi di Atene. Questa la motivazione: «La rivelazione di questi documenti avrebbe minato la protezione del pubblico interesse e turbato la politica economica di Ue e Grecia». Insomma, la verità fa male, va coperta, insabbiata, tenuta nascosta ai cittadini-contribuenti dell’Unione che stanno pagando i 240 miliardi di euro di salvataggio di Atene.
Due i documenti che Bloomberg voleva fossero resi noti, entrambi memo interni per i sei membri dell’Executive Board della Bce: il primo si intitolava “The impact on government deficit and debt from off-market swap: the Greek case” e il secondo descriveva l’attività di Titlos Plc, una struttura che permetteva alla National Bank of Greece di prendere in prestito denaro dalla Bce creando collaterale.
Di più ancora, perché nel febbraio 2010 la Fed ha sentito il bisogno di aprire un’inchiesta sull’operato di Goldman Sachs in Grecia per almeno dieci anni, a colpi di swap e derivati – con tanto di testimonianza di Ben Bernanke davanti al Senato – e dopo quasi tre anni non si sa nulla? Ancora una volta, la giustizia di Goldman Sachs e dei suoi è diversa da quella degli umani.