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Home » Politica » DENTRO IL PALAZZO/ L’effetto-Draghi frenato da Ue e (certi) partiti

  • Politica

DENTRO IL PALAZZO/ L’effetto-Draghi frenato da Ue e (certi) partiti

Sergio Luciano
Pubblicato 25 Febbraio 2021 - Aggiornato alle ore 08:07
Mario Draghi, presidente del Consiglio (LaPresse)

Mario Draghi, presidente del Consiglio (LaPresse)

Ci sono alcune partite importanti su cui il Premier Draghi e il suo standing nulla possono di fronte a inefficienze e giochi politici

Anche se Mario Draghi camminasse sulle acque della fontana di Piazza Navona rischierebbe comunque la fine del marziano di Flaiano, il mitico omino verde, Kunt, che atterra a Roma nel galoppatoio di Villa Borghese, riscuote immediatamente una fama e una gloria corali, e nel giro di tre mesi finisce ignorato da tutti, e con l’astronave pignorata: “A’ marzia’, e levate!”, gli dicono scansandolo per strada.


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A parte Flaiano, per capire cosa sta già iniziando a succedere nell’effimera “era Draghi” iniziata dieci giorni fa è bene ricordare quanto modesta sia la qualità umana e in molti casi professionale e culturale della classe politica che abbiamo mandato in Parlamento: proprio uomini e donne – per carità, niente discriminazioni di genere – che dovrebbero affiancare e sostenere il premier-demiurgo nel difficile percorso di governo.


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Draghi deve fare due cose: una a termine medio-lungo, far arrivare in Italia i soldi europei, missione sostanzialmente già compiuta per il semplice fatto che lui si chiama Draghi e quelli lì di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte li conosce tutti. Missione compiuta ma dagli effetti tutt’altro che immediati, anzi: mediati da un’infinità di vincoli e freni procedurali per cui gli effetti del ruolo di Draghi li godranno altri tra tre o quattro anni.

L’altra mission è “impossible”: sarebbe quella, cioè, di accelerare e rendere più efficace il contrasto alla pandemia. Se bastassero buon senso e determinazione, Draghi ne ha per tutti. Se bastasse ad esempio aver archiviato senza un plissé la demenzialità delle primule, i padiglioni vaccinali da comprare a caro prezzo, optando per l’impiego delle numerosissime e gratuite strutture pubbliche a disposizione, et voilà: il gioco sarebbe fatto. Ma non basta. Si tratterebbe invece di fare il miracolo di ripristinare il previsto, e smentito, afflusso di vaccini in Italia. Ma appunto anche Draghi “per i miracoli si sta attrezzando”.


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Quando le istituzioni europee si confermano imbelli, zavorrate da una burocrazia che gareggia per inefficienza e demenzialità con quella italiana, che ha avuto il coraggio di litigare con AstraZeneca su scadenze e quantitativi di consegne quando ancora l’Ema doveva autorizzare il vaccino all’azienda – un po’ come multare un cittadino che non ha ancora ritirato l’auto dal concessionario – come meravigliarsi se importanti Stati non europei ci abbiano bagnato il naso?

Il solo Draghi, la sola Italia, niente possono contro simili follie. Intanto che Netanyahu comprava dosi Pfizer a 30 dollari per il suo Paese, e l’alcolico biondo Boris Johnson si riscattava di tanti pasticci alla mister Bean garantendo alla Gran Bretagna una partenza vaccinale sprint, Bruxelles cincischiava. E dunque: dove Draghi conta, è il futuro arrivo dei fondi europei. Ma non è un successo che lo proteggerà dalle meschinità dell’oggi. Dove non conta è l’accelerazione della campagna vaccinale: anche l’idea di favorire l’autoproduzione, in sé ottima, transita tuttavia per una lunga fase di avviamento, che beneficerà quindi le prossime annate di vaccinazione di massa (perché non illudiamoci di risolvere la pratica con una sola vaccinazione!), ma non anticiperà la buona conclusione della prima campagna appena iniziata.

E Draghi non conta purtroppo – o meglio: non può mettere in gioco tutto il suo peso – nemmeno sui molti fronti dove per senso istituzionale non può permettersi di esplodere i pochi colpi decisionisti che ha nel tamburo della sua pistola politica.

Lo dimostra, per esempio, la faccenda, tristissima, della prescrizione, dove la Guardasigilli, sua e del presidente Mattarella, Marta Cartabia ha deciso di mandare la palla in tribuna promettendo la revisione della vomitevole norma Bonafede nel contesto di una futura riforma integrale del processo penale (tanto, l’Europa ci chiede quella del processo civile, e lì fingeremo di abbozzarla). Se Cartabia avesse fatto quel che certamente Draghi avrebbe preferito, cioè tornare con un tratto di penna allo status quo ante, i grillini avrebbe strillato e si sarebbe destabilizzato questo maleodorante unanimismo che per ora nasconde le siderali distanze tra alleati di governo. Draghi poteva imporsi? Probabilmente sì: ma poi si sarebbe fermato tutto il resto, per quindici giorni i grillini non avrebbero fatto che piagnucolare paralizzando la politica.

E che dire dei sottosegretari mancanti? Oggi o domani l’elenco vedrà la luce (forse) ma il pragmatico Draghi – ben sapendo che nella maggior parte dei casi contano poco – sta lasciando che i partiti trattino tra loro senza imporsi.

Per sbattere un pugno sul tavolo e ricorrere alla golden share – per così dire – che il ruolo e il momento gli affidano, Draghi deve proprio averne fin sopra i capelli. Ma li ha belli folti e lunghi: è – ricordiamocelo – un formidabile e impassibile incassatore, come ha dimostrato resistendo per anni imperturbabile alle cannonate dei tedeschi, quando era alla Bce.

Dunque non speriamo in nessun miracolo né tantomeno in spontanee palingenesi di questo disastro di classe politica che così fedelmente ci rappresenta. Continueranno a litigare spudoratamente, riprendendo anche via via a blaterare in pubblico, su qualsiasi questione non comprometta la prosecuzione della legislatura oggi e l’aggancio al diritto alla pensione nel corso dell’ultimo anno del quinquennio. È questo che sta loro a cuore, oltre che tentare di preparare, come riusciranno, premesse elettorali vantaggiose per le prossime tornate. Degli interessi del Paese, chi se ne frega.

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