La Dichiarazione di New York chiede la resa di Hamas e condanna Israele, ma è un fragile compromesso tra ipocrisia e interessi geopolitici.
La Dichiarazione di New York, firmata il 29 luglio scorso sotto l’egida dell’ONU, è un urlo strozzato, un compromesso di carta che vorrebbe fermare il sangue di Gaza, ma puzza di diplomazia e ipocrisia. È un documento che osa, per la prima volta, chiedere ad Hamas di arrendersi, di deporre le armi, di cedere il controllo di quella striscia martoriata all’Autorità Palestinese. E, nello stesso respiro, condanna Israele per i suoi attacchi, per la fame usata come arma, per un’occupazione che strangola la Cisgiordania.
Ma chi sono questi firmatari – Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Francia, Lega Araba – che si ergono a paladini della pace? E perché, proprio ora, hanno deciso di voltare le spalle a Hamas, loro vecchio alleato di comodo?
Questa dichiarazione è un gioco di specchi, un balletto geopolitico che nasconde più di quanto riveli. È nata in un mondo stanco, disgustato dalle immagini di Gaza ridotta a un cimitero, con i bambini che muoiono di fame sotto bombe che non distinguono innocenti da colpevoli. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 – 1.200 morti, 250 ostaggi, un’orgia di violenza che ha spezzato anche il cuore d’Israele – la risposta di Netanyahu è stata un diluvio di fuoco.
Decine di migliaia di morti, case polverizzate, un assedio che ha trasformato Gaza in un girone dantesco. La Corte Penale Internazionale ha puntato il dito contro entrambi: Hamas e Netanyahu, criminali di guerra. E il mondo, nauseato, ha preteso una soluzione.
La Dichiarazione di New York è il frutto di questa nausea, ma anche di un calcolo freddo. I paesi arabi, un tempo complici silenziosi di Hamas, hanno invertito la rotta. L’Arabia Saudita, che sogna di guidare il Medio Oriente e di stringere mani israeliane sotto il tavolo degli Accordi di Abramo, ha visto in Gaza un ostacolo alla sua grandeur. Il Qatar, che ha ospitato i capi di Hamas come principi, si è piegato alle pressioni occidentali, temendo di perdere il suo ruolo di mediatore.
L’Egitto, con il confine di Rafah che trema sotto il peso dei profughi, vuole stabilità a ogni costo. E così, questi regimi, che non hanno mai versato una lacrima per la democrazia, hanno firmato un testo che condanna l’attacco del 7 ottobre e chiede a Hamas di sparire, di lasciare Gaza all’ANP, un’entità fragile, corrotta, ma gradita all’Occidente.
E l’Occidente? Francia, Regno Unito, Canada, che promettono di riconoscere lo Stato palestinese entro settembre 2025, si lavano la coscienza con parole altisonanti. Ma gli Stati Uniti, sotto Trump, hanno disertato la conferenza, preferendo un piano cinico: trasferire i palestinesi di Gaza altrove, come fossero pacchi postali. Israele, dal canto suo, ha sputato sul documento, urlando che non accetterà mai uno Stato palestinese senza garanzie di sicurezza. E Hamas? Ha risposto con un ghigno, accogliendo vagamente la dichiarazione, ma rifiutando di cedere le armi. Perché Hamas sa che, senza le sue milizie, è nulla.
Le ragioni di questa dichiarazione sono un groviglio di interessi. I paesi arabi vogliono stabilità per i loro troni, l’Europa cerca di riscattare la sua impotenza, la Cina applaude per infilarsi nel vuoto lasciato dagli americani. Ma il vero dramma è a Gaza, dove la gente muore mentre i potenti scrivono proclami. La proposta di una missione ONU, di aiuti per la ricostruzione, di un’integrazione regionale, è un sogno fragile in un deserto di odio. Chi farà il primo passo? Chi avrà il coraggio di sfidare i falchi di Hamas e i coloni di Netanyahu?
Questa dichiarazione, con i suoi sette fogli di buone intenzioni, è un grido nel deserto. Ma i deserti, di solito, non rispondono. E mentre i diplomatici brindano a New York, a Gaza si scava tra le macerie, si piange, si odia. La pace, quella vera, non si firma su un pezzo di carta. Si costruisce con il sangue, il sudore, il perdono. E di perdono, oggi, non c’è traccia.
