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Home » Politica » DIETRO IL COLLE/ La trappola del toto nomi piace a Mattarella ma non a Draghi

  • Politica

DIETRO IL COLLE/ La trappola del toto nomi piace a Mattarella ma non a Draghi

Anselmo Del Duca
Pubblicato 8 Novembre 2021
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (LaPresse)

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (LaPresse)

L'ipotesi di un secondo mandato di Mattarella esiste. Ma a precise condizioni. Intanto manca un king maker e Draghi rischia molto

Si preannunciano particolarmente agitati i prossimi tre mesi della politica italiana: qualunque scelta, qualunque mossa avrà un retropensiero, perché sullo sfondo ci sarà la scelta del Capo dello Stato. Una girandola di nomi da perdere la testa, che nascondono piani politici confliggenti. In comune hanno solo la concreta eventualità di terremotare il fragile equilibrio che sorregge il governo di unità nazionale.


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Prodi o Berlusconi? Casini o Veltroni? Cartabia o Casellati? Franceschini o Guerini? E poi Amato, Violante, Gianni Letta, Pera, e chi più ne ha, più ne metta. Nel tritacarne della corsa al Colle la confusione regna sovrana.

Per la verità, ci sono due nomi da cui bisogna obbligatoriamente cominciare qualunque ragionamento, quelli dell’uscente Mattarella e del premier Draghi. Sono i due più autorevoli, i due pilastri di questa fase. Solo la conferma dell’attuale inquilino del Quirinale per un bis darebbe la matematica certezza che il quadro politico attuale possa arrivare alla naturale scadenza della legislatura, nella primavera 2023. Mattarella, però, in mille modi ha manifestato la sua totale indisponibilità, e chi lo conosce bene si stupirebbe moltissimo se cambiasse idea, nonostante evidenti spinte internazionali in questa direzione, manifestatesi anche in occasione del G20 di fine ottobre.


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Mattarella è convinto che il bis, dopo Napolitano, non possa e non debba diventare una regola. E non lo smuove neppure il ragionamento di dover prestarsi a fare da ponte rispetto all’elezione nel 2023 di un parlamento che avrà numeri totalmente differenti dall’attuale per effetto dell’entrata in vigore della riforma costituzionale che impone il taglio del numero dei parlamentari. Qualunque elezione, ragionano gli aficionados del Colle più alto, non può conoscere limiti di tempo. Mattarella inizierebbe il bis alla stessa età in cui Napolitano avviò il suo primo mandato. E certo non accetterebbe di farsi da parte dopo un anno in presenza di un quadro politico radicalmente mutato: come potrebbe lasciare, ad esempio, di fronte a una vittoria del centrodestra e a una Meloni (o Salvini) a Palazzo Chigi? Sentirebbe la necessità di rimanere per fare da contrappeso in chiave europea, anche se la cosa risultasse indigesta a molti.


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Manca, per di più, la precondizione per il bis: la quasi unanimità del parlamento. Basta il no secco della Meloni, unica opposizione: Mattarella non può essere il presidente di una maggioranza, neppure molto vasta.

Il voto della Meloni ce lo avrebbe, invece, Draghi, ma in chiave strumentale, per andare subito al voto. Le elezioni anticipate, però, risultano indigeste a tutti (Salvini compreso), tranne che a Fratelli d’Italia. È evidente che l’approdo del premier al Quirinale metterebbe a rischio la vita del governo. E guarda caso si nota una sempre maggiore visibilità del ministro dell’Economia Franco, che potrebbe raccogliere il testimone di Draghi e realizzare quel semipresidenzialismo di fatto che Giorgetti ha delineato con una poco felice boutade. Ma dovrebbe essere Draghi a sbilanciarsi nel dire cosa intende fare, se Quirinale o Palazzo Chigi.

In parallelo, Letta che rimanda ogni discussione sul Capo dello Stato a dopo il varo della legge di bilancio denota che il centrosinistra non ha ancora una strategia. In un parlamento sfilacciato e zeppo di possibili franchi tiratori il rischio è che nessuno controlli nulla, che i parlamentari votino solo pensando a garantirsi la prosecuzione della legislatura e il vitalizio, che scatta dopo quattro anni e mezzo di legislatura, quindi a fine settembre 2022.

Quello che manca è un king maker: per il Quirinale non ci si candida, ma si viene candidati. Se un leader di peso costruisce un’operazione di ampio consenso, si può chiudere bene e in fretta. È accaduto tre volte, nel 1985 con De Mita a tirare volata a Cossiga, nel 1999 con Veltroni e Ciampi, nel 2015 con Renzi e Mattarella, seppure in quarta votazione. Allora Renzi era premier e contemporaneamente leader del primo partito italiano. Nonostante i suoi sforzi, difficile che possa essere il regista della contesa del 2022 con il 2%.

Senza un king maker la corsa al Quirinale potrebbe sfuggire di mano e trasformarsi in un Vietnam parlamentare. Il peggiore degli scenari sarebbe perdere del tutto Draghi: né Capo dello Stato ma neppure più premier, per via della dissoluzione della maggioranza. È l’ipotesi che l’Italia non può permettersi.

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Tags: Sergio MattarellaMario DraghiQuirinale

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